Ha ancora senso smascherare le bufale?

Smascherare le bufale è inutile? Secondo Walter Quattrociocchi, direttore del laboratorio di scienze computazionali presso l’Istituto Alti Studi di Lucca, la risposta è sì. In un recente studio, un team di scienziati guidato dal ricercatore italiano ha preso in esame la diffusione di bufale e teorie del complotto sul web (in particolare su Facebook), giungendo a una conclusione sconfortante: la circolazione di informazioni false online sarebbe un fenomeno totalmente inarginabile. Il motivo è legato essenzialmente alla combinazione di due fattori. Il primo è di natura psicologica, noto agli esperti come pregiudizio di conferma: è la tendenza a selezionare solo le informazioni che coincidono con la propria opinione, scartando quelle di segno opposto. Il secondo è l’ormai enorme mole di informazioni contenute sul web, che consente a chiunque di trovare facilmente in rete una conferma alle proprie opinioni. E, particolare molto importante, l’autorevolezza scientifica delle fonti non è un fattore rilevante: chi è convinto, ad esempio, che gli aerei emettano scie chimiche per avvelenare i cittadini, non cambierà opinione se a sostenere il contrario è l’intera comunità scientifica. Ergo, fare debunking, cioè smascherare le bufale, sembrerebbe uno sforzo inutile.

Alcuni “cacciatori di bufale” professionisti hanno accusato il colpo di fronte alle conclusioni del lavoro di Quattrociocchi: la giornalista del Washington Post Caitlin Dewey, ad esempio, ha addirittura deciso di chiudere la sua rubrica settimanale dedicata alle bufale. Altri invece vanno avanti, contestando i risultati del paper. Tra questi c’è Paolo Attivissimo, giornalista informatico, ormai da anni punto di riferimento del debunking italiano grazie al suo blog Il Disinformatico.

Paolo Attivissimo, a differenza di Caitlin Dewey, lei non sembra volersi arrendere. Perché?

Il paper di Quattrociocchi si riferisce in particolare agli utenti di Facebook, che non sono a mio avviso un campione molto rappresentativo degli utenti di Internet e men che meno dell’umanità nel suo complesso. Mi chiedo se sia corretto estendere i risultati di questa ricerca anche ad altre popolazioni e se si possa misurare il comportamento della famosa “maggioranza silenziosa”, quella che assiste ai dibattiti ma non partecipa. Sappiamo quanti si ricredono su una bufala o una tesi di complotto ma non lo vanno a sbandierare?

Io non mi arrendo soprattutto perché noi debunker non lavoriamo per i cocciuti o per chi è già convinto di avere la verità in tasca. Lavoriamo per i perplessi, per gli indecisi, per chi è disposto ad ascoltare e valutare i fatti prima di farsi un’opinione, invece di partire dalle opinioni per poi selezionare solo i fatti che confermano quelle opinioni.

E poi per me fare debunking è un’occasione di imparare e di scoprire argomenti nuovi. Io mi diverto, e mi sembra che anche i lettori si divertano, per cui non vedo perché smettere.

Ha dei riscontri reali sull’efficacia della sua attività di debunking? Quante persone ritiene di aver “convertito”?

Non ho pretese di validità statistica, ma posso dire di avere ricevuto in questi anni tante mail e lettere di persone che erano partite “complottiste” o “bufaliste” e poi, leggendo i miei articoli e quelli dei colleghi, si sono ricreduti. Teniamo presente che molte persone vivono le tesi di complotto in modo angosciante: credere che moriremo tutti perché l’hanno previsto i Maya o perché le scie degli aeroplani sono irrorazioni di veleni, e poi scoprire che si tratta di panzane, è un gran sollievo. Ricevere i messaggi di chi è uscito dal tunnel mortificante del complottismo è una gioia che giustifica il tempo e la fatica del debunking.

Se le bufale non circolassero il problema sarebbe risolto alla radice. Esiste una ricetta per cercare di “prevenire” la diffusione di bufale? Quali sono le responsabilità dei mezzi di informazione?

Credo che insegnare a scuola e in famiglia il senso critico e l’approccio scientifico alle notizie sarebbe intanto un enorme bonus. I mezzi d’informazione, poi, hanno una responsabilità enorme. Non spendono risorse sufficienti nello “sbufalare” le false notizie e le tesi di complotto. Inoltre sono essi stessi, spesso, la fonte delle bufale: lo abbiamo visto di recente con i falsi video degli attentati a Bruxelles, diffusi dai media perché nella fretta di fare scoop non ne avevano controllato l’autenticità. Penso che un ripasso della deontologia in tante redazioni e da parte di tanti editori ridimensionerebbe drasticamente la circolazione delle bufale. E io sarei ben contento di trovarmi disoccupato.

 

Articolo Realizzato in collaborazione con il Master Sgp

3 Commenti

  1. Purtroppo aimè oggi con “per chi è disposto ad ascoltare e valutare i fatti prima di farsi un’opinione” si taglia via una grossa fetta di popolazione. Facebook ha fatto il resto e i cervelli sono sempre più agonizzanti e ansiosi di postare foto e mostrarsi.
    Grande lavoro Paolo ti seguo da tantissimi anni complimenti e continua sempre ….

  2. A logica mi verrebbe da dire che il sistema di smascheramento dovrebbe mimare il sistema di diffusione delle bufale stesse, per propagarsi anch’esso in modo virale

  3. Mi recondo conto ad essere stato un ingenuo, uno sprovveduto.

    In pratica non solo l’industria dell’informazione produce una quantità incommensurabile di “notizie spazzatura”, giocando sul sensazionalismo di bassa lega, ma chissà quanti “lettori” non hanno alcun problema a nutrirsi e a condividere informazioni palesemente false che continuano ad esistere – e chissà se si rafforzano – una volta smascherate.

    Io non ho ancora immaginato una soluzione e sono molto, molto perplesso e preoccupato.

    Se il “falso” è giustificato per la diffusione della propria convinzione e se questo meccanismo è supportato da un modello economico, cosa si evolverà la situazione?

    http://raffaelepizzari.com/clicca-qui-se-sei-daccordo/

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