Categorie: Ambiente

A Fukushima una nuova barriera contro gli tsunami

Il rischio tsunami era stato sottovalutato. Sono queste le parole contenute nel rapporto stilato dagli esperti della International Atomic Energy Agency (Iaea) dopo una visita di controllo presso la centrale di Fukushima. Sembra, quindi, che le misure di difesa non fossero sufficienti a fronteggiare lo tsunami che ha messo fuori uso i generatori di emergenza destinati al controllo dei reattori. Preso atto della sua negligenza, la Tepco ha avviato a maggio la costruzione di una barriera provvisoria posta di fronte agli impianti. Lo scopo è quello di evitare che l’incidente causato dal maremoto possa ripetersi.

Tuttavia, non sempre muri e dighe sono in grado di arrestare la furia delle onde di maremoto. Ha senso, allora, affidare la protezione di una centrale nucleare a tecnologie dalla portata così limitata? Lo abbiamo chiesto a Stefano Tinti, ordinario di geofisica presso lUniversità di Bologna e membro della International Tsunami Commission, un panel di esperti deputato allo studio dei maremoti e del loro impatto sulle infrastrutture umane.

Professor Tinti, il sisma e il maremoto dell’11 marzo scorso hanno causato gravi danni in Giappone: un evento simile era mai capitato prima d’ora?

Terremoti e tsunami non sono una novità per il Giappone. Il paese è storicamente uno dei più esposti al rischio maremoti: esiste un lungo catalogo di eventi catastrofici che vanno da questo secolo fino ad almeno 1000 anni fa. Gli tsunami colpiscono più frequentemente la costa orientale che si affaccia sull’Oceano Pacifico, sebbene in passato si siano verificati degli tsunami anche nel braccio di mare che separa il paese del sol levante dalla Cina. I giapponesi convivono ormai da tempo con l’idea di dover correre questo rischio, e hanno deciso di adottare alcune strategie per ridurre i danni causati dalle onde anomale.

Di che cosa si tratta in particolare?

Vista la scarsa disponibilità di territorio, il Giappone ha scelto di costruire delle imponenti barriere di protezione nei pressi dei porti e delle città costiere. In generale, vengono impiegati due tipi di contromisure: delle barriere di contenimento costruite a terra e delle dighe frangiflutti poste al largo. La sinergia di queste contromisure riesce a garantire una buona protezione contro onde alte fino a sei metri, soprattutto  per gli insediamenti situati all’interno di insenature molto strette e dai fondali bassi. La maggior parte degli altri paesi ha scelto, invece, di costruire le città lontano dalla costa, o di mantenere delle zone cuscinetto che possano intercettare le onde di maremoto e allagarsi senza subire troppi danni.

A quanto pare, però, queste contromisure non sono riuscite a contenere il maremoto dell’11 marzo scorso. Che cosa è successo?

È vero, lo tsunami ha scavalcato le barriere, ma d’altra parte queste non erano state progettate per resistere a un onda del genere. Le contromisure sono costruite in base a un rapporto costo-beneficio, e il loro compito è quello di mitigare gli effetti del maremoto, non di scongiurarli completamente. Una barriera alta 15 metri è più efficace rispetto a una di sei, ma la sua realizzazione comporta, oltre a costi molto più ingenti, un impatto ambientale non trascurabile. Tutto dipende quindi dalla portata del rischio: in pochi, infatti, avrebbero pensato di costruire barriere tanto alte. L’evento dell’11 marzo può essere interpretato anche da un altro punto di vista: se per assurdo non ci fosse stata alcuna barriera, gli effetti dello tsunami sarebbero stati di gran lunga più devastanti.

Perché, allora, nessuno aveva tenuto in conto un possibile incidente a Fukushima?

Il caso di Fukushima è diverso: lo tsunami non sarebbe mai dovuto penetrare all’interno della centrale. Invece, come sappiamo, l’onda di maremoto ha messo fuori uso i generatori di emergenza, lasciando la centrale al buio e i reattori fuori controllo. Non esistevano ancora, in quel caso, contromisure adeguate a fronteggiare uno tsunami di tale portata: la responsabilità è dei progettisti, che avrebbero dovuto costruire delle barriere di contenimento adeguate. La realizzazione di muri e dighe, dopotutto, avrebbe inciso in modo marginale sul costo complessivo della centrale nucleare. Comunque sia, ha poco senso riconoscere a posteriori gli errori compiuti in passato.

Gli esperti ritengono che il terremoto dell’11 marzo abbia avviato una nuova catena di eventi sismici. È possibile che si verifichi una nuova catastrofe?

Questo tipo di considerazioni sono già da tempo condivise dalla comunità scientifica. Un evento sismico assomiglia a una molla sovraccarica che giunge al punto di rottura: in un solo attimo salta rilasciando tutta l’energia elastica accumulata nel corso degli anni. La faglia pacifica è formata da molte di queste molle, cosicché quando una di queste si distende – come nel caso del terremoto dell’11 marzo – le altre vengono compresse e immagazzinano nuova energia elastica.

Quali strumenti abbiamo per studiare questi fenomeni?

Ci sono dei modelli sperimentali che ci permettono di avere un’idea di quali possano essere le zone più a rischio, ovvero quelle che accumulano più stress elastico. Tuttavia, questi calcoli vengono effettuati sulla base di rilevazioni relative agli ultimi decenni, quindi non sappiamo quasi nulla della storia evolutiva della faglia durante i secoli e i millenni passati. Non possiamo sapere, cioè, quando arriverà di preciso un nuovo punto di rottura. Potranno verificarsi delle scosse di avvertimento, ma non è possibile capire se ciò accadrà nell’arco di mesi, anni o addirittura secoli.

Lorenzo Mannella

Si occupa di scienza, internet e innovazione. Laureato in Biotecnologie presso l'Università di Pisa, ha frequentato il master SGP in comunicazione scientifica presso Sapienza Università di Roma. Collabora con Galileo dal 2011. Scrive per Wired, Sapere e L'Espresso.

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