A percentuali scoperte

Siamo entrati nella settimana calda, quella che precede la Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite di Copenhagen (che si terrà dal 7 al 18 dicembre) e tutte le carte cominciano ad essere scoperte. Ieri, 30 novembre, il governo danese ha proposto la sua “bozza ufficiosa” per facilitare il raggiungimento di un accordo. Secondo la Danimarca, le emissioni mondiali dovrebbero essere tagliate del 50 per cento entro il 2050 (rispetto ai valori del 1990); ai paesi più sviluppati spetta il grosso del lavoro: tagliarle dell’80 per cento. Il 2020, in ogni caso, dovrà essere l’anno in cui le emissioni raggiungeranno il loro picco, poi dovranno cominciare a decrescere. Il tutto per limitare entro i due gradi centigradi l’innalzamento della temperatura rispetto all’epoca pre-industriale (quindi di 1,2 gradi rispetto ai livelli odierni, dal momento che siamo già a + 0,8).

In prima battuta, la reazione delle economie emergenti non si può dire positiva. Il ministro indiano dell’ambiente Jairam Ramesh ha parlato di “fallimento dell’accordo” se questi saranno i termini, e si attende una “contro-bozza” di India, Sudafrica, Brasile e Cina, che è reticente nel fornire i dettagli del suo programma.

Ultimi fuochi a parte, sul tavolo delle negoziazioni di Copenhagen sono state ormai calate ufficialmente le due carte più attese: lo scorso 25 novembre gli Stati Uniti hanno formalizzato il loro impegno a ridurre le emissioni di gas serra del 17 per cento entro il 2020, del 30 per cento entro il 2025 e del 42 per cento entro il 2030. Rispetto, però, ai valori del 2005. Se rapportato ai valori del 1990, il 17 per cento di Obama si trasforma in un 4 per cento. La risposta di Pechino a Washington  si quantifica con un taglio delle emissioni del 40-45 per cento, sempre rispetto ai valori del 2005.

E l’Europa? Per ora resta fermo l’obiettivo di tagliare le emissioni del 20 per cento entro il 2020. C’è però chi pensa che l’Eu potrebbe mostrarsi assai più decisa e raddoppiare persino la sua posta a Copenhagen, proponendo un taglio del 40 per cento sempre entro il 2020 (e sempre rispetto ai livelli del 1990), nonché del 90 per cento entro il 2050.

Uno scenario realizzabile secondo un rapporto divulgato oggi dello Stockholm Environment Institute, commissionato da Friends of the Earth Europe (Foee). Ecco come l’Eu potrebbe raggiungere l’obiettivo: chiedendo ai suoi cittadini di mangiare meno carne e di fare lunghe passeggiate invece che prendere l’automobile, e ai suoi politici di virare con decisione verso le energie rinnovabili. Il costo pro-capite del cambiamento sarebbe di due euro in più al giorno rispetto alla spesa media attuale, ma ci guadagnerebbe anche la salute.

In linea con il ramo Verde del parlamento europeo, che oggi ha proposto di arrivare alla Conferenza un taglio del 30 per cento delle emissioni, Magda Stoczkiewicz, presidente di Foee, ritiene i programmi europei non abbastanza ambiziosi e i rappresentanti politici troppo poco determinati. Secondo lo studio, per  raggiungere l’obiettivo della Stoczkiewicz, il consumo di carne dovrebbe calare di circa il 60 per cento entro il 2020 e soltanto il 43 per cento di tutti gli spostamenti dovrebbe prevedere l’uso dell’automobile (contro il 75 per cento registrato nel 2005); tutti i voli aerei all’interno dell’Eu sotto ai mille chilometri, inoltre, dovrebbero essere sostituiti dalle linee ferroviarie entro il 2050. In generale, i viaggi in aereo dovrebbero comunque essere tagliati del 10 per cento entro il 2020. Il rapporto appare oggi una provocazione per l’Eu, che si è posta fin dall’inizio come forza trainante del “post Kyoto”. (t.m.)

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