Agricoltura? Su piccola scala

Un modello di agricoltura familiare, sostenibile, solidale e capace di provvedere all’autosufficienza alimentare dei paesi africani. È questa la risposta del continente nero alla crisi alimentare, alla povertà e alla disuguaglianza, che si sono acuiti con il recente rincaro delle derrate agricole. In vista della Giornata mondiale dell’Alimentazione del 16 ottobre, i leader delle associazioni contadine europee e africane si sono riuniti a Roma per un confronto sul tema delle politiche agricole e sui modelli di produzione e sviluppo dei territori organizzato dalla campagna EuropAfrica-Terre Contadine. L’auspicio comune è quello di ridare vigore al modello di agricoltura su scala familiare che in Africa assicura ancora più del 90 per cento della produzione agricola, impiegando oltre il 60 per cento della popolazione e gestendo più del 95 per cento delle terre. Servono politiche agricole adeguate, sia a livello nazionale che regionale, che supportino le aziende familiari per quanto riguarda l’accesso al credito, la conoscenza e gestione tecnologica, l’uso delle sementi locali e la valorizzazione delle risorse umane e che aiutino a ripristinare la sovranità alimentare. Ne abbiamo parlato con Elisabeth Atangana, presidente del Propac, la piattaforma delle organizzazioni contadine dell’Africa Centrale che riunisce 10 paesi e 15 milioni di unità di lavoro familiare.

Signora Atangana, lei sostiene che le attuali politiche non riconoscono il valore del lavoro dei contadini africani e la liberalizzazione è responsabile delle condizioni di fame, povertà e disuguaglianza in Africa. Può spiegarci il perché?

“L’agricoltura viene praticata in Africa centrale dall’80 per cento della popolazione e contribuisce per più del 30 per cento del prodotto interno lordo. Oltre a questo è un fattore di preservazione della biodiversità. Per questo bisognerebbe dare un peso maggiore all’agricoltura familiare. Invece il processo di liberalizzazione portato avanti dagli Stati ha promosso politiche orientate all’esportazione dei prodotti africani e all’importazione di generi alimentari dall’estero, perché più economici, per rispondere ai bisogni alimentari locali. Così gli sforzi di chi fa agricoltura di sussistenza sono annullati, tanto più che i prezzi dei nostri prodotti per l’esportazione non sono fissati a livello internazionale e non hanno il giusto valore. Tutto ciò provoca esodo rurale e disoccupazione e scomparsa del modello di agricoltura e solidarietà familiare”.

L’attuale crisi dei mercati finanziari può essere l’occasione per rilanciare un modello sostenibile di agricoltura. Cosa devono fare in questo senso i governi africani e quelli dei paesi del Nord del mondo?

“I governi africani devono mettere in campo spazi di dialogo con le popolazioni locali per mettere in atto delle misure ad hoc in modo che l’agricoltura torni a essere il principale mezzo di sostentamento. Ma serve anche un dialogo tra paesi africani e quelli del Nord del mondo per costruire spazi di solidarietà, soprattutto se vogliono evitare che tanti giovani africani emigrino nei loro paesi. Anche le istituzioni internazionali, però, devono avere dei sistemi più flessibili: i meccanismi attuali sono complessi e non lavorano direttamente con le comunità locali, ma solo con i governi. Il Programma alimentare mondiale (Pam) invece valorizza le filiere alimentari e le popolazioni locali invece di lavorare solo sulle esportazioni”.

In cosa consiste l’agricoltura familiare e quali sono i suoi punti di forza (economici, ambientali, sociali) rispetto a quella che si pratica nel nord del mondo?

“Questo tipo di agricoltura consiste in unità di produzione familiare, dove vengono attuate attività agricole, di trasformazione e di commercializzazione e anche attività non agricole. Il suo punto di forza sta nel fatto che prevede la gestione sostenibile delle risorse naturali, la conservazione dell’ambiente e della biodiversità. Questo è importante se si pensa che le sementi locali sono a rischio, perché riceviamo molti prodotti da usare in agricoltura ma non possiamo controllarli per la mancanza di laboratori. Così non riusciamo a preservare la biodiversità del nostro paese. Inoltre è un modello di solidarietà tra famiglie e persone e favorisce l’aspetto medico e sanitario, visto che si consumano prodotti naturali”.

Può raccontarci di qualche progetto agricolo sviluppato dalle organizzazione del Propac?

“Le associazioni che rientrano nel Propac producono patate, sesamo, verdure, manioca, carote, frutta, caffè, cacao. La fase di trasformazione avviene in maniera artigianale e si cerca poi di commercializzare i prodotti ottenuti nei mercati locali e regionali. La mia organizzazione di base, per esempio, chiamata Chasaadd-Mfou, nel 1992 ha lanciato un programma di produzione di albicocche e palme da olio. È una buona esperienza nell’agricoltura di vivaio che ha permesso alle donne di costruire case, di pagare la scuola ai figli e di estinguere il debito con il microcredito. Inoltre abbiamo sperimentato la costruzione di abitazioni con materiali eco-sostenibili e sviluppato un piccolo allevamento. Questo è un modello di produzione integrata, che unisce agricoltura e allevamento. Inoltre si sperimenta la diversificazione dei sistemi di approvvigionamento dell’acqua in modo da usare quella di pozzo per irrigare gli orti e quella potabile per bere. Altre associazioni, invece, hanno creato un centro di formazione e ricerca agricola per fare diffusione di un’innovazione, formazione dei giovani e inserimento al lavoro, oppure fanno produzione e approvvigionamento di sementi locali, costruzione di piccoli negozi e laboratori per la sanità”.

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