Alt europeo ai database del Dna

La scorsa settimana è arrivata dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo una sentenza che potrebbe rivelarsi storica. Il tribunale ha infatti stabilito che in un database del Dna non possono rimanere le tracce biologiche di quanti, dopo essere stati incriminati e giudicati, vengono assolti o dichiarati innocenti. La sentenza segue il ricorso di due cittadini britannici che, assolti, si erano visti negare la cancellazione dal database dei loro campioni biologici, raccolti durante le indagini. Il diniego della polizia, come spiega la Corte di Strasburgo, viola l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani, in cui si afferma il diritto di ognuno alla tutela della propria vita privata e di quella della propria famiglia, della propria casa e della propria corrispondenza. Abbiamo chiesto ad Andrea Monti, legale che si occupa di bioinformatica, diritto delle telecomunicazioni e delle tecnologie dell’informazione, di spiegarci le implicazioni di questa sentenza.

Avvocato Monti, quali scenari apre la sentenza della Corte?

“Nessuno diretto, oltre a quelli previsti dalla sentenza stessa. Ma ci sono diverse indicazioni e consigli che escono indirettamente. Il primo è quello di ripensare le modalità con cui viene costruito un database di questo genere: molto spesso non serve neanche conservare i campioni biologici, è sufficiente tenere i risultati del test. In questo modo non si rischierebbe che qualcuno entri in possesso dei campioni per eseguire altre analisi, per esempio sulla salute della persona. Inoltre, la sentenza non parla solo di campioni biologici ma anche di impronte digitali, che quindi non possono essere conservate per persone assolte e innocenti. Questo significa che teoricamente, anche in Italia, tutte le persone a cui sono state prese le impronte per vari motivi potrebbero richiederne la cancellazione al Ministero degli Interni”.

A proposito di Italia, a che punto è il progetto di archivio di Dna?

“L’idea fu lanciata dallo scorso governo, che anche per limiti di tempo non è riuscito a realizzarla. L’esecutivo attuale ha dichiarato che comincerà a prepararlo entro il 2009 ma, oltre a considerare i risvolti di questa sentenza, chi lo realizzerà dovrà essere attento a usare le tecnologie più avanzate in modo da renderlo compatibile con quello di altri paesi, come appunto quello del Regno Unito. Gli inglesi sono all’avanguardia in questo settore e per gestire il database del Dna spendono ogni anno 500 milioni di euro, senza considerare tutti i kit mobili in possesso della polizia. Ma, anche ammettendo un investimento importante da parte del governo, ci sono dei limiti oggettivi di questo strumento investigativo”.

Quali?

“Prima di tutto che il database del Dna funzionerebbe davvero se tenesse i campioni di tutti gli abitanti di un paese, e non solo delle persone già condannate. Per altro, anche fra queste si fanno già delle eccezioni visto che i campioni delle persone che commettono reati amministrativi non sono “archiviati” nel database. In Gran Bretagna, per esempio, su circa 60 milioni di abitanti sono schedate geneticamente 4,5 milioni di persone. E poi quello della retrocompatibilità: i nuovi test – più efficaci – non sono confrontabili con quelli passati e condotti con tecnologie vecchie”.

Ma allora il database del Dna è davvero uno strumento investigativo rivoluzionario?

“Sì, ma deve essere valutato per quello che realmente ci può dire. Anche in questo senso la sentenza della Corte di Strasburgo è importante: la discussione sulla scienza forense esce dalla nicchia degli addetti ai lavori e arriva al grande pubblico. È un modo per puntare l’attenzione sul diritto alla privacy, ma anche sull’accuratezza dei risultati che emergono dal confronto dei reperti trovati sulla scena di un crimine e quelli contenuti nell’archivio. Spesso si pecca di un eccesso di entusiasmo nei confronti dei mezzi scientifici e si pensa che possano risolvere tutti i problemi, come se si trattasse di magia. Se un mio capello si trova sulla scena di un crimine non significa per forza che sono un assassino, ma che magari ho messo il mio cappotto sullo stesso appendiabiti su cui l’assassino – prima di commettere l’omicidio – ha messo la sua giaccia e un mio capello ci è finito sopra”.

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