Amianto, la tragedia è ancora in corso

Credits: Montagnoli Rino/Flickr

La sentenza di Torino riporta in primo piano non solo il dramma della Eternit ma l’intera questione delle polveri che uccidono. Una storia che in Italia, come spiega questo articolo pubblicato su Sapere, è cominciata tanto tempo fa, ed è ancora lontana da una conclusione.

Amianto (che in greco significa “incorruttibile”) e asbesto (“inestinguibile”) sono sinonimi usati per indicare vari tipi di silicati naturali che si presentano in forma fibrosa. I minerali fibrosi considerati amianti dalla legge sono tre materiali che hanno conosciuto grande diffusione commerciale, il crisotilo o amianto bianco, la crocidolite o amianto blu, l’amosite o amianto bruno, e altri tre di scarso interesse industriale ma presenti come contaminanti in vari materiali (es. talco) e in molti ambienti naturali, l’antofillite, la tremolite  e l’actinolite.

L’amianto è conosciuto da oltre 2.000 anni. Persiani e Romani utilizzavano manufatti in amianto per avvolgere i cadaveri da cremare. Marco Polo ne Il Milione racconta che nella provincia cinese di Chingitalas, filando questo  minerale si otteneva un tessuto impiegato per confezionare tovaglie. Risale invece al Seicento la ricetta del medico naturalista Boezio per la cura di ulcerazioni agli arti. L’amianto è stato usato per alcune preparazioni medicinali sino agli anni Sessanta, per esempio, in una polvere contro la sudorazione dei piedi ed in una pasta dentaria per le otturazioni. La prima utilizzazione dell’amianto da parte dell’industria risale agli ultimi decenni dell’Ottocento, impiegato come materiale per isolamento termico in Inghilterra. Da quel momento inizia un incremento esponenziale del suo uso che si estende al resto dell’Europa, all’America, all’Asia. Alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti nasce l’industria del cemento amianto, mentre in Italia si diffonde l’uso nel settore tessile. Gli amianti trovano impiego nell’industria e nel settore edilizio come coibentanti, isolanti termici, rinforzanti del cemento, nell’industria tessile per tessuti ignifughi, nell’industria automobilistica per le pastiglie dei freni, nell’industria chimica per la preparazione di filtri ecc.

Alla fine dell’Ottocento comincia lo sfruttamento di giacimenti di crisotilo in Canada, intorno ai primi del Novecento quello di crocidolite in Sud Africa. In Italia intorno agli anni Venti inizia la sua attività estrattiva anche la cava di Balangero (TO), la più grande cava d’amianto dell’Europa Occidentale, che rimarrà attiva fino agli inizi degli anni Novanta. In questa cava lavorò anche Primo Levi che ne lascia una precisa testimonianza ne Il sistema periodico. La produzione mondiale di amianto cresce esponenzialmente e passa da qualche centinaia di tonnellate/anno alla fine dell’Ottocento a quasi 3.500.000 ton/anno nel 1970, quando si raggiunge il massimo utilizzo. In provincia di Torino, in posizione strategica alle porte della Valle di Lanzo nelle vicinanze della cava di Balangero, apre i battenti, alla fine dell’ottocento, la manifattura Bender e Martiny per la produzione di articoli in amianto e gomma. Questo stabilimento per ampiezza e capacità produttiva sarà per un lungo periodo tra i più rilevanti in Italia e secondo solo a poche industrie estere. Sarà in questo stabilimento, che nel 1925, inizierà la produzione delle famose scarpe marchiate “Superga”. La lavorazione dell’amianto nella zona non desta particolare preoccupazione fino a quando, nel 1906, un settimanale locale osserva, scorrendo le statistiche dei decessi del paese, che i morti aventi come causa “tisi anemica” e “gastroenteriti” sono principalmente operai dello stabilimento. È uno dei primi episodi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti delle morti legate al lavoro ed in particolare all’esposizione all’amianto. La dirigenza  dello stabilimento denuncia per diffamazione il direttore del settimanale, che però vincerà la causa sia in prima istanza sia in appello.

Nel 1901 l’austriaco Ludwig Hatschek brevetta il cemento-amianto cui darà il nome di Eternit (dal latino aeternitas, eternità). Poco dopo inizia la propria attività lo stabilimento di Casale Monferrato (Alessandria), il primo in Italia per produzione di questo materiale. Nel 1960 vi lavorano 1.650 operai. La Eternit di Casale Monferrato a da sfondo ad una delle più gravi tragedie industriali del nostro paese: solo dal 1964 al 1986, anno in cui chiude i battenti per fallimento, si registrano fra gli operai 117 morti per cancro al polmone, 43 per asbestosi e 89 per mesotelioma. Un eccesso di mesoteliomi si riscontra tra i familiari degli operai e tra i residenti della cittadina che non hanno mai lavorato nello stabilimento, il quale dista però poco più di un chilometro dal centro. Alla contaminazione proveniente direttamente dalla fabbrica – pur ridotta a partire dagli anni Settanta dopo la realizzazione di sistemi di filtraggio – si aggiunge quella trasmessa dagli operai alle famiglie attraverso le tute coperte di polvere e quella dovuta alla diffusione nel territorio casalese di scarti di lavorazione dell’amianto (il cosiddetto “polverino”), regalati dalla Eternit ai cittadini per realizzare pavimentazioni e coibentazioni.

Circa vent’anni dopo la chiusura, nell’aprile del 2009, si è avviato a Torino, con  grande eco mediatico, il processo contro i titolari della Eternit accusati di disastro doloso. Dalla consulenza della procura emerge che sono stati 622 gli ex dipendenti morti per cause riconducibili all’esposizione all’amianto su un totale di 3.440 operai che lavorarono nello stabilimento dal 1950 al 1980. Benché la sua pericolosità sia nota da tempo, la percezione pubblica della mortalità associata all’esposizione all’amianto si è consolidata solo negli anni Settanta.

Già Plinio il Giovane (61-114 a.C.) aveva osservato l’insorgenza di malattie negli schiavi che lavoravano con l’asbesto, osservazioni analoghe furono fatte da Agricola e da Paracelsio nel 1550, ma nessuno correlò queste patologie alla presenza delle fibre. Nel 1914, il patologo tedesco Theodor Fahr notò la presenza di cristalli (corpsuscoli dell’asbesto, ossia fibre ricoperte di materiale proteico ed ossidi di ferro) nel polmone di una lavoratrice con fibrosi polmonare. Anche in questo caso però nessuna menzione dell’asbesto. E anche negli anni successivi quando apparvero evidenti numerosi casi di fibrosi tra i lavoratori dell’asbesto, le cause furono ricondotte all’inalazione di silice. Soltanto nel 1928 viene descritto il primo caso di fibrosi univocamente associabile alle fibre e si apre la strada al riconoscimento dell’asbestosi. Sempre negli anni Trenta appaiono le prime evidenze sulla  correlazione tra esposizione agli amianti e cancro polmonare e nel 1959-60 si conferma anche la correlazione tra esposizione all’amianto e mesotelioma pleurico. Nel corso degli anni seguenti, medici clinici, patologi ed epidemiologi contribuiscono alla descrizione delle principali malattie associate all’amianto. Da questo momento si moltiplicano anche gli studi sperimentali: nel 1981 Mearl Stanton sulla base di una serie di studi effettuati su ratti, osserva che le fibre lunghe e sottili sono più attive nell’indurre la comparsa del mesotelioma rispetto a quelle corte. Questa teoria sarà seguita negli anni successivi e fatta propria anche da numerosi paesi che, nelle disposizioni di legge inerenti al monitoraggio delle fibre aerodisperse negli ambienti di lavoro, stabiliscono che  debbano essere quantificate solo le fibre di lunghezza superiore ai 5 μm.

Nel 1977 la IARC (International Agency for Research on Cancer) dichiara cancerogene le fibre di amianto, ma passano numerosi anni prima che l’utilizzo di questo materiale venga regolamentato e/o bandito dalla maggioranza degli stati occidentali . L’amianto, infatti, viene tuttora utilizzato in Russia, Canada, India, Cina, Brasile, Zimbabwe. La Federazione Russa ed i paesi asiatici consumano oggi l’85 per cento dell’asbesto prodotto nel mondo.

In Italia una prima regolamentazione risale al 1986, quando vengono dati dei limiti piuttosto ristretti per la concentrazione di crocidolite (l’amianto che ha mostrato la maggiore patogenicità) negli ambienti di lavoro. Bisogna però attendere il 1992 (legge n. 257) affinché si arrivi al divieto, esteso a tutte le forme commerciali di amianto, di estrazione ed utilizzo di materiali contenenti asbesti. Questa scelta pone il nostro paese in una posizione avanzata rispetto ad altri stati, che fanno distinzione fra i diversi tipi di amianto e consentono un uso, seppure limitato, del crisotilo. Ciò permette di includere, nelle disposizioni di legge a favore del personale impiegato, tutti i lavoratori che sono stati esposti, indipendentemente dal tipo di amianto e di lavorazione eseguita. Diverso è l’atteggiamento del Canada, ancora oggi uno dei maggiori produttori di crisotilo al mondo. Recentemente, ha fatto piuttosto scalpore la vicenda di un parere richiesto ad un gruppo di esperti dall’Health Canada, il ministero della salute canadese, sulle differenze di pericolosità tra il crisotilo canadese e gli altri tipi di amianto. Il rapporto conclusivo, che evidentemente non riportava quanto atteso in alcuni ambienti governativi, fu tenuto segreto per oltre due anni, malgrado interrogazioni parlamentari, articoli di denuncia ed editoriali comparsi su riviste scientifiche. Lo scopo principale era, probabilmente, non far rientrare il crisotilo nella lista delle sostanze pericolose della convenzione di Rotterdam che ne regola il commercio verso paesi terzi.

Le malattie indotte dall’esposizione ad asbesto sono generalmente progressive e cumulative, alcune hanno una latenza di circa quindici-vent’anni, il mesotelioma anche di quaranta. Questa è la ragione per cui benché il suo uso sia stato vietato in molti paesi, ci si aspetti un numero di casi di mesoteliomi in crescita fino al 2020.

Da anni si sta lavorando per cercare di chiarire quali siano i meccanismi molecolari che sono alla base della patogenicità di questi minerali. Fino agli anni Ottanta le principali caratteristiche chimico-fisiche associate alla patogenicità erano la forma (le fibre sono più patogene di particelle con analoga composizione chimica) e le dimensioni (le fibre lunghe inducono una maggiore incidenza di mesoteliomi rispetto alle fibre corte). Infatti, il diametro influenza la respirabilità di una particella, mentre la lunghezza ne condiziona la penetrazione attraverso la parete alveolare e la deposizione nelle vie aeree terminali, dove il lume assai ridotto aumenta la probabilità di intersezione. L’aumento della lunghezza delle fibre non solo porta, progressivamente, ad una loro minore rimovibilità dagli spazi alveolari tramite preventivo inglobamento da parte dei macrofagi, ma provoca anche una fagocitosi incompleta con conseguente danneggiamento della membrana citoplasmatica degli stessi macrofagi e liberazione di enzimi ossidanti e fluidi lisosomiali. È proprio durante questa fase che possono essere rilasciate specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto in grado di danneggiare i tessuti circostanti.

Grande importanza è sempre stata assegnata anche alla biopersistenza/durabilità delle fibre, legando il potenziale dannoso di un solido alla sua capacità di rimanere, a lungo e largamente inalterato, all’interno dell’organismo. agli anni Novanta si comincia a considerare la generazione di radicali liberi e di specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto, si riconosce il ruolo della presenza di metalli di transizione, principalmente ferro, sulla superficie delle  fibre nel rilascio delle specie radicaliche e la  “chimica di superficie” nel suo insieme viene finalmente presa in considerazione.

Questo estratto è parte di un articolo pubblicato sul numero di Sapere di Aprile 2011 con il titolo: “Particolati inquietanti” Ecco come abbonarsi alla rivista 

Bice Fubini è professore ordinario di Chimica Generale ed Inorganica presso la Facoltà di Farmacia dell’Università di Torino e direttore del Centro Interdipartimentale «G. Scansetti» per lo Studio degli Amianti e degli Altri Particolati Nocivi.

Maura Tomatis è tecnico di ricerca presso il Dipartimento di Chimica IFM dell’Università di Torino e membro del comitato tecnico-scientifico del Centro Interdipartimentale «G. Scansetti» per lo Studio degli Amianti e degli Altri Particolati Nocivi. 

Credits immagine: United States Geological Survey

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