Ammalati di città

Le città sono punti caldi dell’economia, del consumo, della produzione dei rifiuti. Lo sono letteralmente e anche fisicamente, visto che nei centri urbani si misurano da uno a sei gradi centigradi in più rispetto alle aree rurali che le circondano. Con degli effetti a catena importanti. Per dirne uno, la richiesta sempre crescente di energia per i condizionatori e il consumo sempre maggiore di acqua in estate. Un quadro complesso che ha dato vita a un nuovo campo dell’ecologia, quella urbana. Una disciplina che, nel suo senso più lato, non riguarda solo gli aspetti climatici. Le città, infatti, sono anche l’ambiente dove la selezione si gioca nella competizione per l’affermazione sociale, un fatto che sembra portare le famiglie a investire sempre più su un unico figlio, con conseguente riduzione del tasso di natalità; sono i centri in cui le disparità tra persone benestanti e non si riflette in maniera evidente sull’accesso alle cure e sulla salute. E sono i luoghi dove gli investimenti economici e le propagande politiche vengono accentrate, senza che gli effetti di questa “naturale” polarizzazione siano mai stati provati. Allo studio delle città, che riflettono le culture, le mode, i progressi scientifici, tecnologici e sociali, “Science” dedica un numero speciale, presentando in cinque articoli, presente e futuro di queste realtà cangianti in continua evoluzione.

Stando alle proiezioni delle Nazioni Unite, in questo momento, metà dell’intera popolazione umana, oltre tre miliardi di persone, vive in una città. E si calcola che, entro il 2030, i centri urbani saranno popolati da circa cinque miliardi di abitanti. Secondo Nancy Grimm, dell’Arizona State University, autrice di uno degli studi pubblicati sulla rivista americana, attualmente nei centri urbani si consuma il 75 per cento dell’energia, si emette l’80 per cento dei gas serra e, per ogni grado in più della temperatura, il consumo medio di acqua per famiglia cresce di oltre mille litri al mese.

L’ecologia urbana calcola l’impatto delle città sull’ambiente da molteplici punti di vista. Senza un’attenta programmazione, le megalopoli (quelle con oltre dieci milioni di abitanti) saranno sempre più sinonimo di inquinamento e sviluppo insostenibile, con effetti immediati sulla salute. Un’informazione che dovrebbero tener presente i paesi in via di sviluppo asiatici e africani che, quanto a urbanizzazione, sembrano destinati a raggiungere il primato dell’America Latina nei prossimi 20-30 anni. Nel 2000 la popolazione urbana delle nazioni emergenti contava quasi due miliardi di abitanti, ma sembra destinata a raddoppiare entro il 2030, per arrivare a oltre cinque miliardi a metà del secolo. Secondo Mark Montgomery, economista della Stony Brook University di New York, la trasformazione demografica influenza ed è influenzata da quattro tendenze dello sviluppo economico mondiale: la globalizzazione, che lega i vari centri attraverso reti commerciali internazionali; la decentralizzazione dei governi dei paesi del terzo mondo, che delegano la responsabilità delle scelte politiche ai governi locali; le strategie internazionali per raggiungere gli obiettivi del Millennium Development Goals per la riduzione della mortalità e della povertà (delle zone urbane quanto rurali); e le dirette ripercussioni dei cambiamenti climatici globali sui centri che si sono sviluppati nelle zone costiere o particolarmente colpite da disastri naturali.

Queste considerazioni si riflettono in maniera crescente nelle idee degli architetti più immaginifici, che propongono case sospese agli alberi come palle di natale per le zone soggette a inondazioni, o cimiteri all’interno di grattacieli, per far fronte a uno degli aspetti comunque problematici dell’urbanizzazione. Aspettando la “torre funebre”, gli aspetti umani trovano spazio più concreto in iniziative come Global Age-Friendly Cities, l’inchiesta condotta nel 2007 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) su 33 città del mondo, che mirava a capire quanto il nostro mondo sia a misura di anziano. Un fatto tutt’altro che trascurabile se si pensa che gli ultrasessantenni, che erano 650 milioni nel 2006, saranno oltre un miliardo tra poco più d 15 anni.

Un’idea di programmazione responsabile, benché tardiva, viene ora dalla Cina, che sta progettando veri e propri laboratori di urbanizzazione “in progress”. A cominciare da quella che dovrà essere la prima città interamente ecologica al mondo, Dongtan, vicinissima alla megalopoli di Shanghai (che ha oltre 17 milioni di abitati). La sua costruzione dovrebbe cominciare nei prossimi mesi e sarà totalmente “carbon neutral” (ovvero il carbonio emesso dovrà essere del tutto riassorbito). La Cina spera così di dimostrare che lo sviluppo può davvero essere sostenibile e di creare un nuovo modello di città in contrasto con le politiche di urbanizzazione di questi ultimi due decenni. Dongtan è una delle sei eco-città che il governo cinese vuole realizzare per raggiungere l’obiettivo dei tre “zero tassi di crescita”: della popolazione (entro il 2020), del consumo di energia urbano (entro il 2035) e del degrado ecologico delle città (entro il 2050).

Un esempio più concreto di “ritorno al sostenibile” è rappresentato da Bogotà. Negli ultimi dieci anni infatti, la città colombiana ha ridotto del 70 per cento la mortalità sulle strade attraverso i programmi di educazione, l’implementazione del trasporto pubblico e una nuova pianificazione della viabilità. D’altra parte, come spiega,  Michael Batty della University College London, le città sembrano crescere a caso, ma nascondono sempre degli schemi, delle leggi e degli ordini di grandezza ben definiti. E alla base delle relazioni che legano i parametri che influenzano la crescita delle città c’è sempre la competizione per lo spazio.

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