Archeoplastica: a caccia di rifiuti vintage dal mare

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(Foto: Enzo Suma/Archeoplastica)

In meno di un secolo dalla loro diffusione le materie plastiche sono diventate uno dei materiali più presenti ed utilizzati al mondo. Talmente diffuse da aver colonizzato praticamente qualsiasi ecosistema diventando un problema sempre più grande ed urgente da affrontare. Dal 2018 Enzo Suma, guida naturalistica ad Ostuni (Br), fondatore di Millenari di Puglia, una realtà dell’alto Salento impegnata nella valorizzazione del territorio, nell’educazione ambientale e anche nel volontariato naturalistico, lavora attivamente nella sensibilizzazione sul tema dell’inquinamento da plastica. E lo fa andando a caccia di rifiuti vintage: ha selezionato centinaia di rifiuti di plastica, che risalgono dai 30 ai 50 anni fa, per realizzare un museo virtuale online e diverse mostre nelle scuole e in altri luoghi pubblici. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare come è nata l’idea dei rifiuti vintage che diventano pezzi da museo.

Archeoplastica: rifiuti da museo

Quando pensiamo ai rifiuti di plastica ci vengono in mente soprattutto bottiglie, flaconi di saponi, involucri che proteggono gli alimenti, ma forse nessuno è realmente consapevole della varietà, della quantità, e per quanto tempo questi oggetti restano nell’ambiente, da dove vengono e dove andranno a finire. E forse neanche quando è più facile che riemergano dal passato. Per esempio queste giornate, le prime della stagione fredda, sono quelle più ricche di testimonianze indesiderate del passato. E l’inverno è il periodo in cui il mare restituisce alle spiagge una grande quantità di rifiuti, confida Suma, ricordando come tutto ha avuto inizio: “Raccolsi una bomboletta spray con il retro ancora leggibile che riportava il prezzo in lire. Un rifiuto di oltre 50 anni che mi colpì, una chiara evidenza che la plastica dura veramente tanto”. La foto, diffusa sui social, generò stupore e tante riflessioni sul problema dell’inquinamento da plastica. “Dopo quest’episodio casuale ho iniziato a raccogliere sempre più rifiuti e soprattutto a prestare attenzione a cosa passava tra le mie mani, a mettere da parte tutti i prodotti vintage di un’età variabile dai trenta ai sessant’anni. In pochi giorni ho collezionato svariati contenitori e oggetti databili tra gli anni ‘60 e gli anni ’80. Alcuni sono davvero spettacolari”.

Per farsene un’idea basta scrollare nella pagina Instagram del progetto Archeoplastica, nato proprio da qui, continua Suma: “Con l’idea di sfruttare il potenziale di questi vecchi rifiuti per suscitare riflessioni sull’inquinamento da plastica del nostro mare. L’obiettivo è quello di raggiungere una maggiore consapevolezza sul problema da parte di tutti e quindi un atteggiamento diverso nell’uso della plastica, soprattutto per quella usa e getta”. Nel corso di questi ultimi anni il ricercatore ha raccolto tantissimo materiale, ha conservato centinaia di reperti, diventati reperti di un museo virtuale e di campagne di sensibilizzazione nelle scuole per coinvolgere le nuove generazioni e per renderli disponibili a tutti.

Gli abbiamo chiesto che effetto faccia rivedere oggetti così al grande pubblico. “Negli adulti subentra prima un sentimento nostalgico, riconoscono l’oggetto, che molto spesso è graffiato e ricoperto da incrostazioni marine, lo ricollegano alla loro infanzia, poi il sentimento si trasforma e subentra la consapevolezza del problema – racconta – Nei bambini invece c’è l’effetto curiosità, si ritrovano di fronte ad oggetti che non hanno mai visto, un po’ come vedere qualcosa che appartiene alla preistoria”.

Tanti gli oggetti raccolti dal 2018 ad oggi, televisioni, caffettiere, cotton fioc che continuano a venire fuori dalla sabbia nonostante quelli in plastica siano vietati dal 2019. Ci sono poi più di 1000 accendini, centinaia di puntali di ombrelloni, spazzolini da denti e anche qualcosa di più particolare, ricorda Suma. “Per esempio c’è un contenitore dalla forma che ricorda un clown, anche un po’ inquietante, questo particolare imballaggio è stato prodotto dal 1960 al 1968, venduto solo in Grecia e conteneva miele, come ci ha confermato poi l’azienda greca ci ha mostrato com’era in origine. Sono arrivato ad identificare l’oggetto misterioso grazie all’aiuto e all’intuizione di chi mi segue sui social”. Basta leggere i commenti sotto i suoi post per rendersene conto.

Arecheoplastica è legata principalmente al mare, perché, secondo il ricercatore, è emotivamente più coinvolgente: chissà da dove provengono gli oggetti che restituisce e quali percorsi hanno fatto. Ripescarli dal passato potrebbe così essere la chiave per riuscire ad interessare le persone ad un tema di cui se ne parla tanto e spesso con una comunicazione che tende a colpevolizzare. Il progetto di Suma invece mira ad affrontare il tema con un approccio differente che faccia realmente riflettere sulla permanenza quasi eterna di questi rifiuti nell’ambiente: “Il messaggio di questi reperti è chiaro: tutto quello che abbiamo buttato in mare fin ora è ancora lì. Se non riduciamo la quantità di plastica tra pochi anni in mare ci sarà più plastica che pesci. Il museo virtuale avrà il delicato ruolo di sensibilizzare e informare per promuovere azioni finalizzate alla riduzione della produzione di rifiuti di plastica”.

Un trattato che consideri l’interno ciclo vitale della plastica

Di inquinamento da plastica si è parlato nei giorni scorsi anche a Punte dell’Este, in Uruguay, dove si è appena conclusa la prima riunione del Comitato Intergovernativo delle Nazioni Unite per gestire i negoziati e definire i termini di un trattato globale sull’inquinamento da plastica che tenga conto dell’interno ciclo di vita del materiale.

Perché, come sostengono i ricercatori Zhanyun Wang Antonia Praetorius in uno studio pubblicato su Enviromental Science and Technology Letters, il problema delle materie plastiche non è legato solo alla loro ampia diffusione e indistruttibilità, ma al fatto che sono composte da una miscela di diverse componenti chimiche. Ne sono state identificate più di 10.000, che rappresentano un ostacolo alle soluzioni tecnologiche esistenti o proposte per affrontare l’inquinamento da plastica. Secondo i ricercatori il primo passo per contrastare il problema è quello di indentificare e conoscere tutte le sostanze contenute nella plastica così da valutare e concordare ricette semplificate e standard e identificare additivi sicuri. In questo modo, si augurano gli esperti, riducendo drasticamente la diversità e la complessità delle sostanze chimiche presenti nei prodotti di plastica, risulterà più fattibile la valutazione dei potenziali pericoli e le strategie da adottare.

Credits immagini: Enzo Suma via Archeoplastica