Ambiente

Come identificare le aree più a rischio di megaterremoti

(foto via Piaxabay)

È bastata una magnitudo di 6 gradi per lasciare una ferita difficile da rimarginare nel cuore dell’Italia centrale. Ma se un sisma del genere ha effetti catastrofici, ci sono luoghi in cui la terra sa fare di peggio: parliamo dei megaterremoti, movimenti tellurici che superano magnitudo 8,5 sulla scala Richter, capaci di modificare permanentemente il paesaggio e di provocare disastrosi tsunami, arrivando a provocare anche centinaia di migliaia di vittime. Da oggi comunque potrebbe essere più facile sapere dove potrebbe colpire il prossimo megaterremoto. Uno studio pubblicato su Science indica infatti alcune specifiche caratteristiche geologiche dei punti di incontro tra le placche tettoniche che renderebbero più probabile la nascita di questi mastodontici eventi tellurici, e potrebbero aiutare le autorità a migliorare i programmi di monitoraggio e prevenzione del rischio.

Tutti i megaterremoti hanno origine nelle cosiddette zone di subduzione, le aree della crosta terrestre in cui una placca tettonica scivola al di sotto di un’altra.

Un processo non facile a causa dell’attrito tra le rocce, che può bloccare per millenni il movimento delle placche, accumulando enormi quantità di energia che vengono poi liberate in cataclismatici terremoti. Zone simili non sono poi così rare, e per questo sismologi e geologi cercano da anni di identificare le zone di subduzione più a rischio.

Una delle teorie più diffuse ipotizzava che i megaterremoti fossero più comuni in presenza di due precise caratteristiche delle aree di subduzione: una convergenza veloce delle placche, e quando la placca che scorre al di sotto dell’altra è relativamente giovane. Due dei più drammatici megaterremoti degli ultimi decenni hanno però smentito entrambe le possibilità. Quello avvenuto nell’Oceano Indiano nel 2004, che ha provocato uno tsunami con onde di 30 metri e oltre 230mila morti, ha avuto infatti origine da una zona di subduzione in cui il movimento delle placche è relativamente lento, non superiore ai 3-4 centimetri per anno. Nel caso del terremoto di Sendai e del Tōhoku del 2011, quello che ha provocato l’incidente nucleare di Fukushima e oltre 15mila vittime, la placca del Pacifico che scorre sotto al Giappone è considerata relativamente antica, con i suoi 120 milioni di anni.

Alla ricerca di una nuova teoria che potesse prevedere le aree più a rischio, gli autori del nuovo studio, un team di ricercatori americani e francesi, hanno deciso di studiare un diverso parametro delle aree di subduzione: la loro geometria. Hanno quindi messo in rapporto il grado di curvatura (quanto la linea di incontro tra le due placche devi da una linea retta) delle zone di subduzione dove sono avvenuti i più importanti eventi sismici registrati, con la magnitudo dei terremoti scatenati. In questo modo hanno scoperto che i due parametri sono inversamente proporzionali: più la linea di contatto è piatta, o dritta, più i terremoti risultano potenti.

Approfondendo la loro analisi, i ricercatori hanno dimostrato che una zona di contatto curva produce terremoti più frequenti, ma meno catastrofici. La spiegazione dipenderebbe dalla capacità delle zone di subduzione di accumulare energia: una zona di subduzione piatta accumula energia in modo omogeoneo, e tende a scaricarla tutta insieme producendo quindi terremoti più potenti; mentre nel caso di un’area curva l’accumulo di energia è più eterogeneo, e punti differenti dell’area scaricano l’energia in momenti diversi, producendo più terremoti di potenza minore.

Da questi risultati, i ricercatori sono riusciti a calcolare quali, tra le zone a rischio conosciute, hanno più probabilità di divenire teatro del prossimo megaterremoto. Le Filippine, le Isole Salomone e le isole della Repubblica di Vanuatu possono stare tranquille, perché dai risultati dello studio hanno un basso rischio di essere coinvolte in un megaterremoto. Altri paesi come il Perù, l’isola di Java e il Messico, tutti paesi che non vedono un terremoto di grandi proporzioni da 2-300 anni, avrebbero invece tutte le carte in regola per rischiare in futuro di assistere a un nuovo megaterremoto.

Via: Wired.it

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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