Arizona, terra di astronomi e marziani: cosa si è detto a Tucson

Il discusso meteorite di Marte, le sorprese dei satelliti di Giove, la scoperta di pianeti al di fuori del sistema solare e le possibili forme di vita extraterrestre. Questi alcuni degli argomenti analizzati dai membri della Division of Planetary Science della Società Astronomica Americana e dai molti astronomi di tutto il mondo riunitisi a Tucson alla fine di ottobre 1996.

Tucson (Arizona). I presunti batteri trovati sul meteorite marziano, venti a 1500 chilometri orari su Nettuno, attività sismica sul più grande satellite di Giove. Il sistema solare lo conosciamo ormai come le nostre tasche, eppure negli ultimi anni, grazie alle sonde artificiali e al Telescopio Spaziale Hubble, la piccola porzione di spazio intorno alla Terra ha continuato a riservare sorprese. Anche molto eclatanti, tanto da stuzzicare l’immaginazione del grande pubblico. A Tucson, durante il congresso annuale del Dps (Division of Planetary Science della Società Astronomica Americana), la comunità scientifica ha discusso e analizzato in dettaglio le più recenti scoperte.

La prima è naturalmente la possibile presenza di antiche e microscopiche forme di vita marziana in un meteorite rinvenuto in Antartide nel 1984. Il team della Nasa diretto da David MacKay, che in agosto aveva annunciato la scoperta, ha presentato i propri risultati e replicato a un fuoco di fila di obiezioni e controargomenti. Va detto subito che, nonostante l’enfatizzazione della notizia da parte dei media (e del presidente Clinton, in piena campagna elettorale), MacKay e colleghi nell’articolo pubblicato da “Science” erano stati piuttosto prudenti: l’interpretazione di alcune proprietà peculiari del meteorite (la cui provenienza marziana non è in discussione) come dovute ad antiche attività biologiche era data come molto plausibile, ma non del tutto provata. Anzi, l’articolo concludeva che ciascuna di queste proprietà, presa singolarmente, poteva essere spiegata in modo diverso e che solo l’accumularsi di indizi diversi ed indipendenti favoriva l’ipotesi dei microrganismi marziani fossili.

Al congresso del Dps sono state sollevate parecchie obiezioni significative. Per esempio, l’acqua che un tempo si sarebbe infiltrata nel meteorite sarebbe stata troppo calda per permettere la sopravvivenza di microrganismi. La composizione isotopica dello zolfo presente in alcuni piccolissimi cristalli di pirite, interpretati come prodotto dell’attività metabolica di batteri, sarebbe diversa da quella tipica di tutti i batteri terrestri. E i globuli e cilindretti dall’aspetto di microfossili sembrano assai più piccoli delle loro controparti terrestri, forse troppo piccoli per poter essere i resti di organismi viventi in grado di riprodursi autonomamente. A queste obiezioni MacKay e colleghi hanno risposto in modo efficace, sottolinenando come non sia proponibile un’analogia troppo stretta fra i possibili antichissimi microrganismi marziani e quelli attuali terrestri, e soprattutto promettendo di svolgere rapidamente una serie di analisi e test che dovrebbero in poco tempo dissipare ogni dubbio sulla loro scoperta. Una stimolante postilla a questa discussione è venuta da parte di Joseph Burns, della Cornell University, che ha illustrato le recenti ricerche del suo gruppo sulle possibili orbite seguite da meteoriti in viaggio tra Marte e la Terra. Burns ha sottolineato che una piccola frazione dei frammenti rocciosi espulsi dalla superficie di Marte in seguito a impatti possono arrivare alla Terra in meno di un anno. Per questo 4 miliardi di anni fa gli antichi microrganismi marziani potrebbero aver “infettato” la Terra.

Ma altri argomenti hanno catalizzato l’attenzione dei partecipanti al congresso. Le recentissime osservazioni della sonda “Galileo” sulla superficie delle quattro grandi lune scoperte dallo scienziato pisano quasi 400 anni fa. Le immagini inviate dalla sonda sono bellissime e ricche di dettagli: i vulcani in eruzione su Io, solo in qualche caso coincidenti con quelli scoperti 17 anni fa dalle sonde “Voyager”, la banchisa di ghiaccio di Europa, percorsa da antiche fratture e probabilmente sovrastante un profondo oceano sotterraneo, le strane strutture geologiche di Ganimede, che mostrano processi tettonici di grande complessità, sono stati i temi al centro delle analisi e discussioni. Ma il bello deve ancora venire: “Galileo” resterà in orbita intorno a Giove ancora per alcuni anni, ed il flusso di nuove immagini e dati sarà certamente copioso.

Ha poi tenuto banco la recente scoperta, questa volta da parte di astronomi operanti dalla superficie terrestre (oltre che con lo Hubble Space Telescope) di una grande fascia ai bordi esterni del sistema solare contenente numerosissimi piccoli corpi ghiacciati; tra di essi il pianeta Plutone, scoperto nel 1930, è solo il fratello maggiore. Questa fascia, battezzata con i nomi di Edgeworth e Kuiper, due astronomi che ne predissero l’esistenza quasi 50 anni fa, rappresenta la sorgente di molte tra le comete che di tanto in tanto penetrano nella parte interna del sistema solare. Anche se i corpi scoperti in essa non superano i 500 km di diametro, il loro numero è tale che la superficie totale supera di migliaia di volte quella del nostro pianeta! E’ stato sottolineato che la fascia di Edgeworth e Kuiper, se vista da un astronomo di un pianeta orbitante intorno a un’altra stella, assomiglierebbe molto ai dischi appiattiti e ricchi di polvere scoperti negli anni 80 prima intorno alla stella Beta Pictoris, e poi intorno a molte altre stelle di tipo solare.

Infine l’ultima delle grandi novità di cui si è parlato a Tucson: la scoperta, nell’ultimo anno, di almeno una decina di sistemi planetari intorno ad altre stelle. L’esistenza di tali sistemi, a lungo ritenuta probabile dagli astronomi, non era mai stata provata direttamente, a causa della vicinanza (relativa) dei pianeti alle stelle e della loro (relativamente) debole luminosità. La tecnica usata, basata sul periodico spostamento Doppler degli spettri stellari indotto dal moto orbitale dei pianeti, non è nuova, ma i progressi dei sensori e delle tecniche di analisi dati hanno finalmente prodotto risultati inconfutabili.

I pianeti scoperti sono per lo più molto diversi da quelli del nostro sistema solare: la loro massa è maggiore di quella di Giove, e spesso essi hanno orbite molto vicine alla loro stella o fortemente eccentriche. Ma queste caratteristiche, ha notato a Tucson G.W. Marcy, uno degli scopritori, sono probabilmente un “effetto di selezione”, cioè sono dovute al fatto che sistemi planetari di questo tipo sono molto più facili da scoprire che non un sistema simile al nostro. Tuttavia le scoperte indicano che i sistemi planetari esistenti, oltre ad essere relativamente comuni, hanno anche una grande variabilità di caratteristiche. E’ affascinante (ma prematuro) immaginare che anche le forme di vita sviluppatesi in questi sistemi potrebbero essere infinitamente sorprendenti e diverse da quelle conosciute.

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