Cento anni di raggi cosmici

raggi cosmici

Il 7 agosto del 1912 Victor Franz Hess atterrava con la sua mongolfiera “Bohemen” Pieskow, vicino Berlino. A bordo le prove di una scoperta eccezionale, quella dei raggi cosmici. La storia però è più complessa e prima di Hess un italiano, Domenico Pacini, aveva già scoperto l’esistenza di queste radiazioni ad alta energia. A raccontarlo è stato Alessandro De Angelis nel libro L’enigma dei raggi cosmici, recensito da Carlo Bernardini su Sapere in occasione del centenario.

raggi cosmici de angelis bernardiniLa fisica microscopica ha avuto, da sempre, una risorsa misteriosa di cui però si è accorta solo da poco più di cento anni: le particelle elementari che arrivano dallo spazio profondo come “raggi cosmici” dopo aver fatto i viaggi più lunghi dell’Universo. Ora, Alessandro De Angelis ha molto meritoriamente deciso di scrivere un libro per tutti su questo problema, sottolineando sin dal titolo, con la parola enigma, che c’è ancora un bel po’ da fare e che non è stata una strada in discesa. L’autore è un fisico che insegna a Udine e non conosco personalmente; mi fa piacere di incontrarlo qui e di scoprire che se ciò di cui parliamo è lo stesso settore della ricerca e ciò che sappiamo sono più o meno le stesse cose (forse lui meglio di me), pure le abbiamo viste da due ambienti diversi, sicché eventi e personaggi, a un estraneo digiuno dei fatti, possono apparire due mondi che si sono appena toccati.

Intanto, De Angelis ha molto a cuore le vicende di questo fisico Domenico Pacini, nato nella provincia romana (a Marino) da padre umbro (Foligno), che fece la scoperta dell’origine cosmica dei raggi nel 1911, quando tutti avrebbero giurato che di origine terrestre si trattasse. Radioattività e raggi X erano le novità di chi bazzicava con gli strumenti elettrici del tempo, per lo più elettroscopi. La ionizzazione dei gas era perciò nota e che particelle elettricamente cariche vagassero nell’aria non era un mistero. Ma che un fisico poco più che trentenne dall’aria dimessa e impiegatizia come il dottor Pacini avesse lo spregiudicato dubbio che quelle cariche non fossero generate dall’abbondante materiale terrestre intorno a quegli strumenti ma venissero dal vuoto cosmico insieme con la luce delle stelle, a quei tempi non si usava accettarlo; e ometto la vicenda dei fantomatici “raggi N di Blondlot”, dal nome del fisico che aveva colto al balzo l’eccitazione da radiazioni e che erano una fantasiosa “bufala” (diremmo oggi) insolita; Pacini si attrezzò per vederli e si convinse che non esistevano annunciando così con “sensate esperienze” la sua onestà scientifica.

Oggi, abbiamo fatto l’abitudine alle congetture ai limiti del credibile; a quei tempi, invece, la prudenza era d’obbligo. Fatto sta, che De Angelis racconta qui ordinatamente come Pacini diligentemente s’organizza per dimostrare ciò che aveva immaginato, sino a concludere di avere la prova provata della sua idea. Sott’acqua, in mare, gli elettroscopi misurano ionizzazioni calanti con la profondità; salendo invece, in quota, là dove l’atmosfera ha intercettato (eliminandoli) meno raggi che arrivano dall’esterno del pianeta, la ionizzazione aumenta.

Ma c’è un concorrente: l’austriaco Victor Hess, che viene da un buon ambiente e ha un “protettore” come il pirotecnico Franz Exner, a Vienna, che non aveva esitato a procurare una tonnellata di pechblenda ai coniugi Curie lanciati verso il Radio. Intorno a Exner, fioriva una buona squadra: il gesuita Theodor Wulf, accurato strumentista e sperimentatore; e i fisici Gockel e Bergwitz che avevano disponibilità di robuste mongolfiere su cui portare i loro elettroscopi. Ma Wulf, Gockel e Bergwitz non si misero mai d’accordo su una possibile origine non terrestre, tal ché Hess fece un volo personale su un pallone attrezzato e trovò dati inconfutabili che meritavano la pubblicazione. È ben vero che conosceva il lavoro di Pacini e che, nella corrispondenza, gli riconobbe i suoi meriti; ma nel 1936 è a Hess che fu attribuito il Nobel e la fama di scopritore. Pazienza: ora De Angelis ci dà, documentandola, la storia vera e possiamo proteggere i nostri ricordi dalle cronache ingannevoli.

Se posso aggiungere una mia banale osservazione, leggendo questo libro ho finalmente capito perché la fucina dei fisici delle particelle avesse tanta dimestichezza (conservandola almeno sino agli anni Sessanta del Novecento) con la geofisica e la meteorologia: radiazioni terrestri e ionizzazione dell’aria erano le “cause scatenanti” della ideazione dei rivelatori. Questa duratura promiscuità, che dai tempi di Blaserna e di Alfonso Sella si propaga, per oltre 50 anni, sino a quelli di Antonino Lo Surdo e Enrico Medi, è illustrata con dovizia dall’autore perché è da lì che veniva anche Domenico Pacini. Alzare lo sguardo dalla Terra al Cosmo non era affatto banale e avrebbe procurato a molti il piacere dell’unificazione, piacere coltivato dai fisici come un privilegio della loro cultura su quella dominante. Comunque, la suola romana di via Panisperna riconosce il primato di Pacini attraverso chiare documentazioni di Edoardo Amaldi, un’assoluta autorità internazionale in questi problemi.

Chi arrivava, come me, all’Istituto G. Marconi dell’Università di Roma negli ultimi anni Quaranta del secolo scorso, era subito (benché studente) preso nel turbine dei raggi cosmici. Edoardo Amaldi e Gilberto Bernardini avevano rinunciato alla fisica nucleare avviata con Enrico Fermi prima della guerra, perché gli americani, dotati di costosi acceleratori, non consentivano una concorrenza adeguata ai problemi; Fermi non era più in Italia, accolto da Chicago dopo la conclusione del Progetto Manhattan e la bomba. Ma l’expertise necessaria a fabbricare contatori a scarica del tipo di Geiger e Müller erano pane quotidiano nei laboratori romani; non solo: una efficiente elettronica a valvole recuperate dai “campi ARAR” in cui gli occupanti alleati avevano ammucchiato i residui tecnologici del conflitto era stata messa a punto da Bruno Rossi, un genio espulso dalla stupidità razzista ma recuperato poi dagli americani per nostra e loro fortuna. Una esemplare storia recente è «Fuga dall’Italia fascista: il caso Bruno Rossi» (Sapere, dicembre 2011), scritta da Luisa Bonolis.

A noi studenti degli anni’48-49 veniva subito dato in lettura il corposo e indimenticabile Cosmic Rays di L. Janossy, caldo di stampa (1950) per la Oxford UP, una specie di vecchio testamento di quelle ricerche. Nei corridoi dell’Istituto si sentiva una voce squillante che chiedeva il collegamento radio con la “capanna dei raggi cosmici” di Cervinia, Plateau Rosà, Testa Grigia, nata per la lungimiranza dei nostri Maestri che avevano ottenuto i soldi per fare laboratori ad alta quota (4000 m): uno lì e un altro di padovani sulla Marmolada al Pian di Fedaia, a cui ha lavorato anche la collega Milla Baldo Ceolin che purtroppo abbiamo appena salutato per sempre su questa rivista.

Insomma, gli italiani c’erano, anche se Pacini era ormai morto dal 1934; e non erano da meno degli americani che, per la prepotenza del pur grande Robert Millikan, si consumavano in diatribe sul tema della carica elettrica o neutralità dei raggi cosmici e della loro possibile origine da atti primordiali di “creazione” di atomi, una sorta di creazionismo cosmicheggiante. De Angelis, qui, dà una vivida rappresentazione dei caratteri dei personaggi, spesso assai poco galileiani nel loro modo di intendere la realtà.

Nella rinascita postbellica della fisica romana, l’Istituto Marconi si riempie ben presto di tecnici che compiono il lavoro certosino di analizzare le tracce di ioni che hanno impressionato appositi emulsioni fotografiche; sono gli eroici scanners attaccati a un microscopio, in ambiente buio, finché non si trova un evento meritevole da proclamare subito come interessante nei corridoi. I fisici accorrono. Immaginate il giorno in cui troveranno un antiprotone in una lastra: ma Emilio Segrè, uno del vecchio gruppo finito in America, sta per cercare antiprotoni con il bevatrone di Berkeley, costruito apposta, dopo la clamorosa scoperta del positrone ad opera di Carl Anderson (subito Nobel) e del nostro Giuseppe Occhialini (niente Nobel). Amaldi decide di non togliere la preda al vecchio amico e rimanda la pubblicazione dell’evento visto a Roma. Segrè prenderà il Nobel con due suoi collaboratori e ne nascerà una storia senza fine a cui il gentiluomo Amaldi non farà mai cenno (altri tempi!). Intanto, l’esperimento di Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni darà inizio alla “vera” fisica delle particelle elementari, identificando due diverse particelle di masse intermedie tra elettroni e protoni: i mesoni mu (m, soprannominati mesotroni o elettroni pesanti) e i mesoni pi-greco (o pioni, p), previsti dal giapponese Yukawa come intermediari delle interazioni forti. Rossi e Rasetti mostrano la realtà fisica del “paradosso dei gemelli” della relatività confrontando i tempi di decadimento in volo dei mesoni con quelli di mesoni che decadono da fermi; Rossi scopre gli sciami estesi di particelle cariche che arrivano tutte insieme dal Cosmo: incomincia la saga dei mesoni K, accompagnata da quella dei neutrini.

Insomma, il Cosmo di tutti i tempi e da ogni distanza da noi manda segnali in cui si cedono energie di particelle singole che superano ogni immaginazione. De Angelis si sforza per darne un’idea a chi non ci ha mai pensato, sicché il libro è un invito alla fisica degno della massima attenzione. Il compiacimento di trovare tra le righe tanti italiani è un omaggio alla nostra scuola che, ancora oggi, è pienamente coinvolta sulla scia dei suoi mitologici Maestri. Accortamente, l’autore della storia aggiunge in appendice alcuni testi d’epoca, che permettono di paragonare lo stile e le nozioni d’un tempo a quelli di oggi, che spesso possono essere truccati con espedienti, per così dire, di “mercato”. Qui, niente di tutto questo: anche se è improbabile che un analfabeta sia raggiunto da una tale lettura. Speriamo che la scuola faccia tesoro e avvicini quanti più giovani è possibile a questi enigmi; perché vale la pena di risolverli.

Questo articlo è stato pubblicato con il titolo “Storia e scienza di un enigma” sul numero di giugno di Sapere

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