S. Avveduto, M. C. Brandi, E. Todisco (a cura di)
Le migrazioni qualificate tra mobilità e brain drain
Studi emigrazione, rivista trimestrale
Centro studi emigrazione, Roma 2004 pp. 1024, euro 18,00
Il problema delle risorse umane per le attività di ricerca e sviluppo è quanto mai di attualità. Nonostante gli studi sulla migrazione dei cosiddetti cervelli abbiano una storia di almeno 40 anni, è solo ultimamente che queste tematiche sono arrivate a interessare un pubblico ampio, da quando cioè il problema della “fuga” è apparso indissolubilmente legato alla capacità che un paese ha di ottimizzare gli investimenti in termini di istruzione e di spingere l’acceleratore sul pedale dell’innovazione. Ma maggiore visibilità non vuol dire migliore comprensione del fenomeno.
Ad aiutarci viene allora lo studio condotto a partire dal 2001 dall’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali ora giunto a termine. I risultati verranno presentati durante una tavola rotonda che si terrà giovedì 26 maggio presso il Cnr (Pl. Aldo Moro, 7 – Aula Marconi, ore 10.00) e sono raccolti nel volume monografico della rivista trimestrale del Centro Studi Emigrazione di Roma. “Il volume raccoglie diversi contributi elaborati nel corso di questi anni”, spiega Sveva Avveduto, responsabile insieme a Carolina Brandi e Enrico Todisco dello studio che è parte di un progetto europeo per lo studio della migrazione nel mondo della ricerca. “Analisi delle politiche di migrazione di diversi paesi, una ricerca sulle migrazioni dall’Italia verso gli Stati Uniti e il Canada, una ricerca sui ricercatori stranieri che popolano gli enti di ricerca pubblica italiani e un focus sulla migrazione in Svizzera, che insieme compongono un quadro generale della situazione italiana”. Non certo rosea.
Dall’analisi di altre realtà europee e non (tra i paesi studiati dalla parte italiana del progetto ci sono stati Portogallo, Grecia, Germania, Nuova Zelanda, Australia) emerge lo stallo in cui si trova il nostro paese. Da noi vengono ricercatori prevalentemente dell’Est Europa, trascorrono un tempo limitato, e poi ritornano al loro paese oppure prendono altre destinazioni. Al contrario i nostri ricercatori che decidono di dirigersi per esempio negli Usa aumentano di anno in anno: “si tratta di personale specializzato che nella maggior parte dei casi può contare su un contratto da parte di un’università o un’industria statunitense e che cercherà di rimanere fuori Italia il maggior numero di anni possibile”, spiega Avveduto.
A fronte di questa emorragia continua che non viene tamponata da entrate estere, le istituzioni non sembrano però prendere provvedimenti. In Germania, per esempio, primo fra i paesi europei che esportano ricercatori verso gli Usa, il governo ha pensato di dover rimpiazzare i cervelli in uscita attirando giovani ricercatori dall’Est Europa o dall’Asia. “Per farlo ha facilitato le operazioni di entrata dei giovani universitari con un sistema di green card”, continua Avveduto. “Congiuntamente ha stanziato finanziamenti per la ricerca nel campo delle nuove tecnologie, e così hanno fatto anche Irlanda, Regno Unito e Portogallo. Se già a partire dal periodo di dottorato che si trascorre all’estero i ricercatori trovano delle condizioni di lavoro ottimali e possibilità di lavoro future, è più facile che si decida di rimane in quel paese”.
Proprio quello che non accade da noi, dove le prospettive di precariato per i lavoratori della ricerca è tale da scoraggiare anche i più intenzionati. Dei dati emersi dalla ricerca pluriennale dell’Irpps e delle prospettive future discuteranno insieme a Sveva Avveduto e Carolina Brandi anche Enrico Pugliese, direttore dell’Istituto, Franca Bimbi, ordinario di Sociologia e Politica sociale all’Università di Padova, Giovanni Garofalo, ordinario di diritto del lavoro all’Università di Bari, Giovanni Paoloni, ordinario di Archivistica generale all’Università della Tuscia e Lorenzo Principe, presidente del Centro Studi Emigrazione.