Il cervello umano ha la “sindrome di Peter Pan”

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(Foto: Natasha Connell su Unsplash)

Come quello di un eterno bambino, il nostro cervello sembra essersi evoluto mantenendo un alto livello di interazione e tra le diverse aree cerebrali anche in età adulta. Una caratteristica unica, non presente negli altri primati – comprese le scimmie antropomorfe – e che invece condivideremmo con i nostri antichi “cugini”, gli uomini di Neanderthal. A suggerirlo è uno studio internazionale guidato da ricercatori italiani dell’Università Federico II di Napoli e pubblicato su Nature Ecology & Evolution. Per realizzarlo, gli scienziati hanno ricostruito la superficie interna del cranio di 148 specie di primati viventi e di ominidi, utilizzando delle nuove tecniche di antropologia virtuale. A raccontarci la ricerca è Gabriele Sansalone, oggi all’Università del New England, in Australia, tra gli autori dello studio.

Prof. Sansalone, come è nata la ricerca e come cambia la prospettiva sull’evoluzione del cervello umano?
“La ricerca è frutto di un lungo percorso cominciato nel 2018 con la creazione del gruppo che vede la collaborazione di scienziati italiani, australiani e americani. Nel 2020 abbiamo pubblicato i primi risultati, a cui si aggiunge quest’ultimo lavoro. I dati sono sorprendenti: fino ad oggi l’ipotesi più accreditata era in favore di un’evoluzione ‘modulare” del cervello umano, secondo cui le sue diverse componenti possono modificarsi in maniera semi-indipendente. Al contrario, i nostri risultati evidenziano come un tratto distintivo del cervello umano sia la forte interconnessione tra le sue diverse componenti anche in età adulta. Ossia: Homo Sapiens mantiene un alto livello di coordinazione tra i lobi, e le aree cerebrali non si evolvono indipendentemente l’una dall’altra: una caratteristica alla base delle capacità cognitive e nell’acquisizione di capacità altamente specializzate, che può avere conferito alla nostra specie un grande vantaggio. Nelle scimmie antropomorfe, infatti, il cervello perde l’interazione tra i lobi alla maturità sessuale”.

Come siete arrivati a questa conclusione?

“Analizzando la crescita del cervello umano e comparandola con quella delle altre scimmie antropomorfe. Negli stadi giovanili, sia il nostro cervello che quello di gorilla e scimpanzé sono fortemente integrati, ma dopo la maturità sessuale solo il nostro mantiene l’interconnessione tipica giovanile. In altri termini, il nostro cervello soffre di una perenne sindrome di Peter Pan”.

In cosa consiste la metodica utilizzata per la ricerca, l’antropologia virtuale?

“La tecnica consiste nel ‘riempire’ virtualmente la cavità cranica, rimuovere la parte ossea e scoprire così il calco del cervello. In questo modo è possibile avere un’immagine molto accurata della forma del cervello anche in esemplari ormai estinti da molto tempo, senza bisogno di ricorrere a procedure invasive. Ovviamente, questa tecnica serve a produrre il dato grezzo: i nostri risultati sono frutto di elaborate analisi matematiche e statistiche, senza le quali non sarebbe possibile determinare lo schema di evoluzione della nostra specie”.

Quali sono le differenze funzionali tra la nostra specie e quelle più antiche?

“Qui c’è la seconda grande sorpresa emersa dal nostro studio: anche il cervello dei Neanderthal è risultato fortemente integrato nell’adulto. Questo contribuisce a rendere ancora più sfumata la linea che ci separa dai nostri cugini. Per esempio è stata rilevata la presenza di circonvoluzioni e di asimmetrie. Soprattutto queste ultime sono state oggetto di numerose analisi, come quelle dell’area di Broca, associate alla produzione del linguaggio articolato. Tuttavia, la nostra ricerca mette in evidenza come cervelli di forma sostanzialmente diversa – di Homo sapiens e Homo neanderthalensis – possano avere molte più cose in comune di quanto non pensassimo in precedenza”.

Cosa aggiunge il vostro studio a quello che già sappiamo grazie alle tecniche di imaging?

“L’interconnessione tra le diverse aree del cervello è stata già osservata a livello di network neurali tramite tecniche di imaging. Ad esempio, rispetto agli scimpanzé, il cervello umano mostra l’attivazione di più aree in risposta a stimoli simili. Tuttavia, queste tecniche non possono essere utilizzate sui fossili (ovvio) e su molte altre specie di primati viventi. Pertanto il nostro approccio permette di allargare di molto la scala di osservazione e di fornire un approccio evolutivo. Questo non sarebbe possibile con le tecniche di imaging, sebbene siano molto potenti”.

Riferimenti: Nature Ecology & Evolution

Credits immagine: Natasha Connell su Unsplash