Chi ha paura dell’Ibm?

Un durissimo braccio di ferro è in corso, negli Stati Uniti, attorno a uno studio epidemiologico sui possibili effetti tossici di sostanze usate nelle lavorazioni industriali. Un braccio di ferro che coinvolge una grande multinazionale, l’Ibm, e un editore scientifico, la Elsevier. E che mette uno contro l’altro la Elsevier e i suoi stessi redattori; e soprattutto, il sistema giudiziario e il mondo scientifico. I fatti. Due epidemiologi, Richard Clapp dell’Università di Boston e Rebecca Johnson della società privata Epicenter, hanno sottoposto alla rivista Clinics in Occupational and Environmental Medicine, pubblicata da Elsevier, uno studio che analizza la mortalità per tumori tra gli ex dipendenti della Ibm. Lo studio era stato commissionato ai due ricercatori dagli avvocati di due ex operai del gigante informatico, che hanno fatto causa all’azienda accusando i composti chimici respirati per tanti anni sul luogo di lavoro di aver causato la loro malattia. La causa è solo una delle tante intentate negli ultimi anni, in Europa e negli Usa, contro l’Ibm. I solventi usati nella produzione dei chip, in particolare quelli appartenenti alla classe dei glicol eteri, sono sul banco degli accusati (letteralmente) da molti anni, sospettati di essere cancerogeni e di causare problemi di infertilità e malformazioni al feto nelle donne in gravidanza. Su richiesta dell’avvocato dei querelanti, Clapp e Johnson hanno avuto accesso agli archivi della Ibm, che tiene un registro chiamato “corporate mortality file”, comprendente le cause di morte di oltre 33mila ex dipendenti. Nel loro studio, presentato inizialmente alla corte, hanno evidenziato mortalità più alte di quelle della media della popolazione americana per otto tipi di tumore tra gli uomini e cinque tra le donne. In particolare, gli operai che hanno lavorato almeno un mese alle linee di produzione dei chip sembrano avere una probabilità di morire di tumore al rene nettamente più alta della popolazione generale: il 79 per cento in più per gli uomini, il 112 per cento per le donne. In ottobre, gli avvocati della Ibm erano però riusciti a convincere il giudice del processo, che si svolge a Santa Clara, in California, a non ammettere la perizia, giudicata “altamente pregiudiziale”. E in febbraio, il caso si è concluso con una sentenza a favore dell’Ibm.A questo punto, Clapp e Johnson hanno sottoposto lo studio alla redazione di Clinics in Occupational and Environmental Medicine, ritenendo che si trattasse comunque di uno studio epidemiologico di interesse generale. Ma gli avvocati della Ibm sono tornati alla carica, invocando una clausola per cui i dati del registro sugli ex dipendenti erano stati concessi ai due ricercatori solo ai fini di una perizia da presentare durante il processo, non per la pubblicazione. Clapp ha ribattuto che ormai il tema era da considerarsi di dominio pubblico, dopo che un articolo del New York Times aveva anticipato i risultati dello studio; in più gli atti del processo sono pubblici. La comunità scientifica aveva quindi il diritto di vedere e giudicare lo studio. Nel dubbio, l’editore Elsevier ha preferito non rischiare, e ha deciso di non pubblicare l’articolo, peraltro già accettato dal board dei revisori della rivista, con la giustificazione ufficiale che è un paper di ricerca originale e non una review, come la rivista prevede. L’ultimo capitolo della saga però è la reazione degli editor della rivista: che hanno considerato quella di Elsevier una censura mascherata dovuta alle pressione dell’Ibm, e hanno minacciato di boicottare l’intero numero di novembre, in cui lo studio doveva uscire. Tutti gli altri autori di quel numero ritireranno i loro articoli se lo studio di Clapp e Johnson non verrà pubblicato. Tutto molto intricato dunque, tanto da far nascere alcune domande imbarazzanti sul rapporto tra scienza e diritto, evidenziate in editoriale sul numero di questa settimana di Science. I procuratori della Ibm hanno criticato lo studio di Clapp, dicendo che era stato condotto solo ai fini della causa legale. È davvero un problema, si chiede il direttore di Science Donald Kennedy? Quante volte dell’ottima ricerca ha contribuito a scogliere casi giudiziari complicati? In secondo luogo, chi deve decidere sulla validità di un contributo scientifico in una causa legale? Il giudice californiano ha rifiutato di ammettere la perizia perché “non stabiliva un legame chiaro tra condizioni sul luogo di lavoro e dati di mortalità”. Non sarebbe stato meglio affidare ad altri scienziati, a una controperizia della difesa, una valutazione tecnica come questa? Comunque stiano le cose nel caso in questione, non è compito dell’epidemiologia chiarire i meccanismi tossicologici o patologici, e forse qualcuno avrebbe dovuto dirlo a quel giudice. E infine, visto che gli avvocati dell’Ibm definiscono lo studio “scienza spazzatura”, quale miglior modo per screditarlo che farlo pubblicare e sottoporlo al giudizio impietoso del resto della comunità scientifica? “Alla luce del disprezzo che l’Ibm mostra nei confronti dello studio” insinua Kennedy, “viene davvero da chiedersi perché si stia dando tanto da fare per occultarlo”.

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