CO2, sequestro con dubbi

La Commissione Europea ha varato la strategia per abbattere i gas serra . Un piano ambizioso, che entro il 2020 si pone tre obiettivi: ridurre di almeno il 20 per cento le emissioni globali di gas serra, incrementare al 20 per cento rispetto al 1990 la quota di energia rinnovabile sul totale di quella consumata e aumentare l’efficienza del 20 per cento. Tutti traguardi sui quali ora dovranno pronunciarsi il Parlamento, il Consiglio europeo e i singoli Stati. Il costo totale previsto si aggira intorno ai 60 miliardi di euro da investire entro il 2020, vale a dire lo 0,5 per cento del Pil europeo. Il paese che dovrà faticare di più per mettersi in regola è di certo l’Italia, che dovrà tagliare del 13 per cento rispetto al 2005 le emissioni di gas serra da parte di settori non industriali, come trasporti e riscaldamento domestico, e far arrivare al 17 per cento del consumo energetico nazionale quello derivato da fonti rinnovabili. Come fare? Tra i diversi strumenti a disposizione dei paesi membri, l’Unione sembra puntare molto: la cattura e il sequestro di anidride carbonica. Entro il 2015, infatti, la Commissione vuole autorizzare ben 12 impianti dimostrativi in vari paesi, tra cui due impianti a carbone in Italia, uno al Sud e l’altro non ancora localizzato da affidare ad Enel. E dal 2020 in poi chi voglia costruire un nuovo impianto industriale lo dovrà fare a impatto zero, usando il sequestro di CO2 per eliminare le emissioni.

L’idea è quella di catturare la CO2 dal camino delle centrali elettriche a combustibili fossili, ma anche dalle raffinerie e dai cementifici, di separarla dagli altri gas di combustione e quindi di trasportarla, compressa e seccata, all’interno di tubi fino al sito di stoccaggio geologico, a 800 o più metri di profondità. “Con la Ccs, la CO2 prodotta nelle centrali elettriche o in altri grandi impianti viene separata dai gas reflui come azoto e nitrati, catturata e intubata a pressione di 80-120 bar”, spiega Fedora Quattrocchi, responsabile dell’Unità Funzionale “Geochimica dei Fluidi, Stoccaggio geologico e Geotermia” dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), e membro per l’Italia della Piattaforma Europea Zeffpp (Zero Emissions Fossil Fuels Power Plants). “Si tratta di un gas reattivo che, una volta in profondità occupa il sito prescelto, per esempio, un acquifero salino o un serbatoio depleto di idrocarburi, e va incontro prima a solubilizzazione e poi a mineralizzazione, dando vita quindi a nuovi minerali”. 

Con questo sistema, applicato su scala industriale, l’Europa conta di poter ridurre del 20-30 per cento le emissioni di CO2 globali. “In Italia abbiamo alcuni impianti a carbone o a olio da riconvertire: anche solo applicare questa tecnica a 4-5 grosse centrali da 15 milioni di tonnellate di CO2/anno di emissioni permetterebbe di raggiungere la metà del target aggiuntivo di emissioni da abbattere che ci ha imposto l’Unione Europea nel 2007, che è di 150 milioni di tonnellate CO2 annui. Con 10-15 siti di stoccaggio di CO2 si abbatterebbe il 60-70 per cento delle emissioni nazionali”, va avanti la ricercatrice. Facendo qualche calcolo, quindi, a fronte di una produzione di 500 milioni di tonnellate di CO2/anno, la tecnologia Ccs consentirebbe in Italia di abbatterne circa 200 milioni di tonnellate.

Ma con quali conseguenze? “Innanzitutto bisogna dire che la CO2 non è una scoria. E’ un clima-alterante anossico, ma non velenoso, reattivo in acqua e a contatto con roccia. Basti pensare che le nostre Dolomiti sono formate da CO2 sequestrata geologicamente nel passato durante la formazione dei sedimenti marini calcarei stratificati”, spiega Quattrocchi. Eppure la prospettiva di immagazzinare enormi quantità di anidride carbonica sottoterra fa sorgere domande: cosa succederebbe se un sito non fosse perfettamente sigillato? Di fronte a questa ipotesi, gli esperti di Ccs non hanno dubbi: se da un sito di sequestro geologico dove si iniettano, per esempio, 10 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, cioè 200 milioni in 20 anni, fuoriuscisse l’1 per cento dell’anidride carbonica iniettata (2 milioni di tonnellate in 20 anni), la conseguenza peggiore sarebbe la comparsa di un sito di degassamento in superficie dopo un periodo che può andare dai 100 ai 1000 anni. “Di siti di degassamento naturale in Italia ce ne sono circa 200 e sono spesso sede di terme e di riserve Wwf, come nel caso di Tor Caldara a Lavinio; e sono tenuti sotto controllo dall’Ingv per conto della Protezione Civile, perché associati a zone di faglia o vulcani”, spiega Quattrocchi. “Se si temono possibili fughe negli acquiferi potabili da siti di stoccaggio di CO2 scelti male, invece, ciò che si rischierebbe è la comparsa di un poco di acqua minerale gassata”.

Utilizzato con successo da circa 30 anni negli Stati Uniti, anche per aumentare la produzione petrolifera, e da una decina in Canada e Norvegia, lo stoccaggio geologico di CO2, nei piani di Barroso, dovrà diventare una realtà anche nel vecchio continente. In Germania si sta procedendo a sondare possibili siti utili vicino a Berlino, in Francia vicino al bacino di Parigi, mentre Inghilterra, Norvegia e Danimarca puntano su impianti off-shore nel Mare del Nord. L’Italia, in questo contesto, sembra favorita rispetto agli altri. “Abbiamo il vantaggio di conoscere bene il nostro territorio, vista la sismotettonica e dal momento che l’Eni ha scavato circa 7000 pozzi negli anni Sessanta e Settanta in cerca di riserve”, continua la responsabile dell’Ingv, che per conto della Cesi Ricerca S.p.a. ha realizzato il catalogo italiano dei siti di stoccaggio geologico di CO2. “Di strutture geologiche sicure in Italia ce ne sono tra 100 e 200, con potenziale di stoccaggio intorno ai 20-40 Gtonnellate di CO2 sequestrabili in sicurezza sotto gli 800 metri. Se poi si pensa che per arrivare alla potenza di 2000 megawatt di una centrale a carbone servirebbero 1000 pale eoliche in un paese tanto povero di spazi e di vento, la convenienza dei Ccs è chiara. In ogni caso entrambe le filiere tecnologiche vanno portate avanti: anzi le industrie alimentate da elettricità pulita con Ccs daranno i fondi sufficienti a mandare avanti le rinnovabili”.

Resta però il problema dei costi. Che sono ingenti: circa 70 euro/tonnellata di CO2, valore che, dicono gli esperti, è destinato a scendere solo con l’avvio di questi impianti su scala industriale. E non mancano le perplessità. “Bisogna valutare con dati alla mano se questa tecnologia è vantaggiosa in termini emissioni nette”, spiega Francesco Vaccari, ricercatore dell’Istituto di Biometeorologia (Ibimet) del Cnr. “Va bene riuscire ad abbattere le emissioni, ma se per fare questo si consuma più energia allora meglio puntare sul cambiamento degli stili di vita e sulle fonti rinnovabili”. E sui metodi tradizionali, come le biomasse, per il sequestro dell’anidride carbonica. “La possibilità di catturare CO2 attraverso le piante è ancora valida e può dare un aiuto”, conclude Antonio Raschi, agronomo e dirigente di ricerca dell’Ibimet-Cnr. “In agricoltura dovrebbero essere bandite le tecniche che impoveriscono le sostanze organiche del terreno e incentivate quelle, come la semina su sodo, che nel corso degli anni possono dare il loro contributo nel sequestro della CO2”.

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