Come brillava quella notte

Di solito, le radiazioni che ci arrivano dalle stelle (a parte il Sole) sono debolissime: un baluginio appena sufficiente a farci ammirare le costellazioni nelle notti serene o per essere captato e studiato dagli strumenti degli astronomi. Invece, il 27 agosto scorso, quando la parte occidentale degli Stati Uniti e l’oceano Pacifico erano immersi nell’oscurità, improvvisamente per cinque minuti la notte si è come trasformata in giorno. O quasi. Metà del nostro pianeta, infatti, è stata investita da un’ondata di raggi X e gamma provenienti da una stella lontana 23 mila anni luce (gli astronomi la chiamano SGR 1900+14), così intensa da mandare in tilt due satelliti, disturbare le trasmissioni radio riportando l’attività della ionosfera ai suoi livelli diurni e “illuminando” la parte alta dell’atmosfera con una radiazione paragonabile a quella di una radiografia. Kevin Hurley, dell’Università di Berkeley, ha stimato che l’energia liberata in quei cinque minuti da SGR 1900+14 sarebbe sufficiente a soddisfare i bisogni dell’umanità per un miliardo di miliardi di anni.

Niente paura, assicurano subito gli scienziati, il fascio di raggi è stato assolutamente innocuo per le centinaia di milioni di persone che dormivano tranquillamente nelle regioni “illuminate”. Ma l’evento rimane straordinario perché è la prima volta che radiazioni provenienti dall’esterno del Sistema solare hanno un impatto così intenso sul nostro pianeta. Forse proprio per questo c’è voluto più di un mese prima che il fatto venisse reso di dominio pubblico con una conferenza stampa al quartier generale della Nasa a Washington il 29 settembre.

A captare per primi il “flash” sono stati i ricercatori del Very Low Frequency Reserch Group dell’Università di Stanford guidati da Umran Inan. La loro rete di ricevitori studia le onde radio a bassa frequenza utilizzate per le comunicazioni della Us Navy. Nella notte del 27 agosto i segnali emessi dalle trasmittenti di Lualualei nelle Hawaii e di Jim Creek sulla costa ovest americana si sono improvvisamente indeboliti fino a raggiungere i livelli diurni. “Era come se, nella ionosfera, la notte si fosse di colpo trasformata in giorno”, racconta a Galileo il coordinatore del team. Che cosa stava succedendo?

Le onde radio a bassa frequenza (le cosiddette Vlf) si trasmettono “rimbalzando” sulla ionosfera, uno strato dell’atmosfera che si estende tra i 60 e i 500 chilometri di quota circa. Durante il giorno i raggi ultravioletti del Sole strappano alcuni elettroni dalle particelle d’aria che si trovano lassù (tecnicamente si dice che le particelle vengono ionizzate). Il risultato è una notevole attività elettrica che disturba e indebolisce le trasmissioni radio. Di notte la ionosfera è invece assai più quieta e, come sanno bene i radioamatori, i messaggi radio viaggiano che è un piacere. “Ma in quella notte di agosto i raggi X e gamma provenienti da SGR 1400+19 sono stati abbastanza intensi da ionizzare le molecole d’aria, eccitando la ionosfera tra 60 e 90 chilometri di quota ai suoi livelli diurni”, racconta Inan.

Mentre gli strumenti di Inan iniziavano il loro balletto, anche i rivelatori di numerosi satelliti, tra cui la sonda Ulisse, registravano i raggi gamma. I segnali mostravano inoltre una oscillazione ogni 5,16 secondi, una “impronta digitale” caratteristica che ha permesso agli scienziati di individuare con certezza la sorgente dell’emissione. E proprio la sorgente è di particolare interesse per gli studiosi. Un’emissione così violenta di radiazioni potrebbe infatti essere un segno tangibile dell’esistenza dei magnetar, una classe di oggetti celesti ipotizzata qualche anno fa da due studiosi americani. I magnetar sarebbero stelle di neutroni particolari: oltre a possedere una densità enorme (tutta la massa del Sole racchiusa in un diametro di poche decine di chilometri) esse genererebbero i campi magnetici più intensi dell’universo. E all’origine dei raggi giunti fino a noi in quella notte di agosto sarebbero appunto questi campi magnetici.

Ma a Umran Inan i magnetar non interessano molto. Lo appassiona molto di più la ionosfera. “Di solito non possiamo eccitare la ionosfera su scala globale come è successo in questo caso. Inserendo queste informazioni nei nostri modelli matematici potremo imparare molto sulla risposta di questo strato atmosferico a disturbi così vasti e improvvisi. E quindi impareremo a sfruttare meglio la ionosfera per migliorare le comunicazioni a grande distanza”.

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