Come si previene il diabete?

Abbuffate di dolci, girovita abbondante, e vita comoda. Se chiedessimo agli italiani come si immaginano le persone con diabete risponderebbero così, aggiungendo sì che il diabete è una malattia grave e incurabile, ma non così grave come i tumori o l’Alzheimer. A tracciare l’immagine del diabetico secondo gli italiani è un’indagine Gfk Eurisko condotta per conto della Società italiana di diabetologia,  in congresso a Bologna fino al 31 maggio. Indagine che mostra soprattutto che sì gli italiani conoscono il diabete, ma che fanno poco o nulla per evitarlo. E invece il diabete si può prevenire. In futuro (anche se in parte) anche quello di tipo 1, come promettono gli esperti.

“Solo il 3% degli intervistati si considera a rischio di diabete; un dato questo già stridente con la prevalenza di questa condizione nella popolazione italiana, stimata intorno al 6,2% della popolazione (ovvero a circa 3,7 milioni di persone, dati Arno, nda)”, racconta Stefano Del Prato, Presidente della Società italiana di diabetologia: “Ma il dato ancora più inquietante è che il 70% delle persone a più elevato rischio di diabete (quelle con glicemia elevata, ipertensione, scarso consumo di frutta e verdura, limitata attività fisica, famigliarità, elevati indice di massa corporea e circonferenza addominale, nda) non fa nulla per ridurre questo rischio, come se ignorasse totalmente il problema. In particolare, dalle interviste, emerge che la fascia a maggior rischio, percepisce meno l’alimentazione come elemento impattante sul rischio, mentre riconosce un chiaro ruolo in tal senso ad alcol e fumo. E la conseguenza inevitabile di tutto ciò” continua Del Prato, “è che non sentendosi a rischio, non pensandoci, la gente non fa neppure prevenzione.

E a essere in pericolo diabete in Italia sono in molti: circa 6 milioni quelli ad alto rischio, 15 milioni quelli a rischio modesto. E per assurdo, come rivela l’indagine, più le persone sono a rischio, meno si impegnano a prevenire la malattia, dimenticando come il diabete non sia una malattia a se stante, ma costituisca anche un fattore di rischio importante per l’insorgenza di malattie renali, ictus e tumori.

Ma come si previene il diabete (quello di tipo 2)? Due i pilastri su cui agire per abbassare il rischio: la dieta e l’esercizio fisico. Ridurre il consumo calorico (con i grassi che rappresentano meno del 30% del contributo calorico e assicurando un introito di fibre maggiore di 15g per 1000 calorie, incrementando il consumo di legumi, vegetali, frutta e cereali integrali), e aumentare l’attività fisica insieme possono ridurre il rischio di diabete di tipo 2 fino al 50%.

Ma anche per le forme di diabete di tipo 1 (quelle legate alla distruzione delle cellule beta del pancreas che producono l’insulina, che va quindi somministrata dall’esterno) è possibile immaginare qualcosa a livello di prevenzione. Magari intervenendo su popolazioni ad alto rischio, come quella della Sardegna, dove l’incidenza di diabete di tipo 1 è circa 5 volte maggiore rispetto alla media italiana.

In questa forma della malattia la diagnosi avviene attraverso l’identificazione di auto-anticorpi (come gli anti-GAD, anti-IA2 e anti-insulina, che portano alla distruzione delle cellule beta e quindi all’assenza dell’ormone). La loro presenza però è rivelabile anche prima della comparsa della malattia (in genere colpisce bambini o adolescenti tra i 5 e i 15 anni), come ha confermato anche l’analisi dei famigliari di 160 famiglie sarde con un soggetto diabetico di tipo 1, realizzata dai ricercatori dell’Università di Cagliari. Delle persone analizzate, circa il 13% risultava positivo al test per gli auto-anticorpi; soggetti che nel follow-up in alta percentuale (circa il 40%)  hanno sviluppato poi la malattia.

Cosa significa questo? Vuol dire avere la possibilità di stanare il diabete prima che compaia, intervenendo prima nel trattamento della malattia, evitando complicazioni quali chetoacidosi e coma, ma anche immaginare possibili strategie preventive. Come un vaccino, come racconta a Wired.itMarco Baroni, endocrinologo della Sapienza Università di Roma: “Lo studio Andromeda, un trial clinico di fase III, in cui si è valutata la capacità di un antigene di indurre tolleranza immunologica in soggetti alla diagnosi del loro diabete ha infatti mostrato che almeno in linea teorica è possibile ottenere dei risultati positivi ed arrestare la distruzione delle cellule beta del pancreas”.

Lo studio cui fa riferimento Baroni, appena pubblicato su Diabetes Care, mostra infatti come, somministrando a soggetti diabetici di recente diagnosi uno degli antigeni (DiaPep277) bersaglio della distruzione delle cellule beta, sia possibile migliorare il controllo della malattia, aumentando la produzione di insulina, e soprattutto riducendo la morte delle cellule che producono l’ormone: “Questi soggetti sono sempre dipendenti dall’insulina per controllare la malattia, ma lo studio mostra che è possibile indurre tolleranza immunitaria nei soggetti diabetici e contrastare l’impoverimento delle cellule beta del pancreas. La prospettiva, per il futuro, è quella di indurre tolleranza immunitaria anche nei soggetti ad alto rischio di sviluppare diabete di tipo 1, come i giovani studiati in Sardegna, magari sfruttando anche altre molecole come antigeni (GAD, insulina orale) o immunomodulatori come l’anti CD3 (Otelixizumab), per esempio”, conclude Baroni.

Via Wired.it

Credits immagine: Victor/Flickr

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