Stipate su grossi carghi battenti bandiere “multinazionali”, tonnellate di frutti esotici e di piante tropicali partono dai Paesi del Sud del mondo e attraversano mari e porti prima di giungere sulle ricche tavole occidentali. E’ questo il percorso di tutti gli alimenti prodotti nelle economie povere e consumati prevalentemente in quelle ricche: banane, caffè, cacao, cereali. Un commercio da milioni di dollari l’anno che non tiene conto delle condizioni dei lavoratori delle piantagioni: diritti e garanzie sociali negate, salari bassi, mancanza di accordi sindacali, sfruttamento del lavoro minorile. E come guadagno finale solo poche briciole, quel che lasciano i padroni del mercato internazionale. Ma questo non è il solo commercio possibile. Ne esiste un altro, il commercio equo e solidale, nel quale gli alimenti vengono prodotti e commercializzati nel totale rispetto dei lavoratori e dell’ambiente.
L’obiettivo principale di questo commercio, infatti, è pagare direttamente al produttore un prezzo equo, da concordare in base al costo del lavoro e delle materie prime. I prodotti del commercio equo al momento della vendita presentano un sovrapprezzo. Questa maggiorazione consente ai produttori di dotarsi di sistemi di produzione perfezionati e di introdurre condizioni di lavoro favorevoli agli imprenditori agricoli, ai salariati e all’ambiente.
“Le organizzazioni importatrici reperiscono i prodotti dai fornitori dei paesi in via di sviluppo, li importano e li commercializzano secondo vari metodi”, spiega Danilo Tucconi, responsabile della comunicazione per il Ctm Altromercato di Verona, maggiore centrale di importazione italiana, “il più famoso è la vendita nelle “botteghe del mondo”, che in Europa sono più di 3000”. Il secondo canale di commercializzazione è quello della certificazione dei prodotti, per favorirne la diffusione anche nei normali circuiti di distribuzione. Nell’Unione Europea, infatti, sono in uso quattro marchi del commercio equo e solidale: Max Havelaar, Transfair, Fairtrade Mark e Rattvisemarkt. Gli organismi di certificazione sono tutti affiliati alla Fair Trade Labelling Organisations International (Flo) e fissano i criteri da rispettare affinché un prodotto possa recare il marchio del commercio equo: stipendio equivalente o superiore ai minimi stabiliti dalle leggi locali, libertà di associazione per i lavoratori e diritto di contrattazione collettiva. Sono inoltre banditi il lavoro forzato e lo sfruttamento dei bambini. E devono essere garantiti diritti basilari come la maternità, l’assistenza sanitaria, il diritto alla casa e all’istruzione e la salvaguardia dell’ambiente. La gestione di una piantagione secondo questi criteri è molto più costosa della norma. Per questo il commercio equo paga i prodotti a un prezzo superiore a quello di mercato.
“Il prezzo minimo per il caffè garantito da Ctm Altromercato, indipendente dalle oscillazioni di mercato, è di 126 dollari ogni cento libbre – 45,3 Kg per i caffè di tipo arabica, cioè 121 dollari di prezzo base più cinque dollari di sovrapprezzo” – spiega Tucconi – “Qualora il prezzo di mercato superasse i 126 dollari, Ctm garantisce comunque il prezzo fissato dai produttori in base alla quotazione scelta e i cinque dollari di sovrapprezzo. Per il caffè da coltivazione biologica certificata, come Uciri, esiste inoltre un bonus di 15 dollari per 100 libbre”. Nelle “botteghe del mondo” una confezione da 250 grammi di caffè Uciri biologico viene a costare 5300 lire, contro le 4975 del caffè Lavazza, le 5390 lire del caffè Paulista e le 9870 del caffè Illy.
Le banane sono l’altro punto di forza del commercio equo. I coltivatori di banane del Centroamerica ricevono dalle multinazionali che controllano il commercio mondiale (Chiquita Brands International, Dole Food Company e Del Monte Fresh Produce) solo il cinque per cento del prezzo finale di una banana, invece “con il commercio equo si può garantire l’accesso al mercato a banane prodotte secondo criteri sociali ed economici giusti”, sostiene Tucconi. Le banane eque sono coltivate in sei paesi del Sud: Ghana, Ecuador, Repubblica Dominicana, Colombia e Costa Rica. Giungono in Europa tramite importatori indipendenti e attraverso Agrofair, compagnia di fair trade, e la loro equità viene certificata dagli organismi aderenti alla Flo. Le prime sono arrivate nei Paesi Bassi nel 1996 e da allora le vendite si sono quadruplicate: nel 1999 in Europa ne sono state vendute 17 mila tonnellate.
Attualmente il caffè equo rappresenta appena il due per cento di tutto il caffè nell’Unione Europea, e le banane eque detengono una fetta ancora più marginale del mercato (0,2 per cento circa). Ma la risposta dei consumatori è comunque positiva. L’undici per cento della popolazione dell’Ue ha già acquistato prodotti equi, con variazioni che vanno dal tre per cento in Portogallo e Grecia al 49 per cento nei Paesi Bassi. Inoltre, i tre quarti della popolazione europea ha dichiarato che acquisterebbe volentieri banane “fair trade” se fossero in vendita nei negozi accanto a quelle convenzionali. E il 37 per cento dei consumatori sarebbe disposto a pagare il dieci per cento in più del prezzo normale delle banane per un prodotto di qualità equivalente ottenuto rispettando i criteri del commercio equo e solidale.