Consigli a una aspirante collega

Ian Stewart
Com’è bella la matematica – Lettere a una giovane amica
Bollati Boringhieri 2006, pp. 157, euro 17

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Godfrey Hardy scrisse all’inizio del suo “Apologia di un matematico” una frase molto significativa di come la matematica veniva considerata nel secolo scorso persino dai suoi maggiori esponenti: “Per un matematico di professione è un’esperienza melanconica mettersi a scrivere sulla matematica”. Hardy intendeva dire che ormai non era più in grado di produrre della nuova matematica, e si doveva accontentare di cercare di spiegare ai profani cosa essa sia. Ian Stewart ha scritto questo suo saggio proprio per aggiornare al ventunesimo secolo la visione della matematica: la sua prefazione inizia così citando il suo illustre compatriota, solo per ribattere che non è affatto d’accordo con lui, e che anzi “non abbia senso inventare nuovi teoremi se non arrivano all’orecchio del pubblico”.

Un’affermazione del genere è davvero estrema, e in effetti Stewart si affretta ad aggiungere che non è che il grande pubblico debba per forza sapere quali siano i nuovi teoremi matematici man mano scoperti; quello che per lui è davvero importante è che la gente non abbia più l’idea inculcatale a scuola che la matematica è ormai tutta stata studiata, e che al giorno d’oggi ci si accontenti di limare qualcosa qua e là, giusto per permettere ai travet della materia di guadagnarsi onestamente il loro salario. “Com’è bella la matematica” – il titolo originale inglese è il più sobrio “Letters to a Young Mathematician” – intende mostrare cosa fa davvero un matematico di professione al giorno d’oggi, sotto forma di una serie di lettere a una fittizia sua giovane amica, a partire da quando alle superiori lei manifesta l’intenzione di dedicarsi alla materia a quando ottiene finalmente una cattedra universitaria.

Il libro non parla di matematica nel senso di formule matematiche, seguendo la ben nota legge di Feynman per cui ciascuna di esse dimezza il numero di copie vendute; vengono enunciati alcuni teoremi, ma per la maggior parte del tempo Stewart tende a fare un quadro direi quasi impressionista. Racconta la sua infanzia, e come scoprì che la matematica sarebbe stata la sua scelta di vita. Fa notare come la materia ormai sia di una vastità impressionante, e che non abbia praticamente nulla a che fare con quello che si impara a scuola – non che l’aritmetica che si insegna sia inutile, ma è semplicemente una base pratica, un po’ come mattoni travi e chiodi per fare una casa. Cerca soprattutto di spiegare come ai matematici quello che importa davvero non siano i teoremi, ma le loro dimostrazioni; e al riguardo ci allieta con una bella digressione sulla “matematica come narrazione”. Aggiunge infine una serie di aneddoti più o meno noti, che sono legati più alla comunità dei matematici che alle barzellette su di loro. Riesce nel suo intento? Direi non del tutto. La parte che sembra più debole è il tentativo di mostrare “la matematica che ci circonda”, come afferma in un capitolo. È vero che un matematico vede automaticamente la struttura matematica nascosta all’interno di un qualunque oggetto della natura, per non parlare di quelli costruiti dall’essere umano; però non riesce a dare concretezza a questa vista interna, lasciando deluso il lettore casuale che non è già riuscito a trovarla per conto proprio.

Nel complesso, a ogni modo, la lettura è vivamente consigliata sia al matematico di professione, che perdonerà alcuni refusi e soprattutto un paio di sviste nell’enunciato dei teoremi e avrà finalmente qualche freccia in più al proprio arco nel momento in cui amici e conoscenti lo punzecchieranno chiedendogli come sia possibile fare “quelle brutte cose con i numeri”, che al profano curioso, che finalmente non dovrà scappare spaventato di fronte alla materia, grazie alle indubbie doti divulgative di Ian Stewart.

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