Contro l’abuso degli psicofarmaci

Siamo assistendo in questi anni ad un forte aumento nell’incidenza di patologie della sfera psichiatrica come ansia, depressione, disturbi bipolari, che colpiscono circa il 25% della popolazione ogni anno e rappresentano una causa importante di DALYs (acronimo inglese che corrisponde a “anni di vita persi per disabilità o morte prematura”), con la conseguenza di un considerevole incremento nell’uso degli psicofarmaci, in particolare antidepressivi e antipsicotici. In Italia il consumo di farmaci antidepressivi è aumentato in maniera considerevole e la loro popolarità potrebbe anche essere pericolosamente correlata a discutibili strategie di marketing.

La somministrazione di farmaci antipsicotici, nello specifico, costituisce l’intervento farmacologico d’elezione per il trattamento di patologie psichiatriche quali la schizofrenia o i disturbi bipolari, ma c’è il rischio di un loro abuso – causato anche dall’assenza di trattamenti farmacologici alternativi – in condizioni che non ne presentano un reale vantaggio, come nella terapia della disabilità intellettiva con problemi comportamentali, per la quale numerose evidenze scientifiche raccolte in questi anni dimostrano che l’effetto dei farmaci antipsicotici utilizzati è paragonabile al placebo addirittura nel 79% dei casi. Non sembra quindi esserci una reale efficacia che giustifichi la somministrazione di tali farmaci in questa condizione patologica. I farmaci antipsicotici continuano però ad essere ampiamente utilizzati per smussare i comportamenti aggressivi nelle persone con disabilità intellettiva che non hanno alcuna storia di malattia mentale, anche se possono essere privi di un vero e proprio effetto calmante.

In uno studio pubblicato di recente sul British Medical Journal è stato preso in esame un campione di 9.135 pazienti trattati con antipsicotici tra oltre 33000 persone residenti nel Regno Unito. Al 71% di questi non era mai stata diagnosticata una grave malattia mentale, ma presentavano disabilità intellettiva con problemi comportamentali. Un controsenso tutt’altro che poco evidente, che non sfugge neanche ai “non addetti ai lavori”. Le ragioni di tale scelta, pur sempre biasimabile, sono da ricercarsi presumibilmente nell’assenza di trattamenti alternativi per il contenimento dei comportamenti aggressivi, anche di natura non strettamente farmacologica, che gli operatori sanitari sono chiamati a fronteggiare, talvolta anche in situazioni di emergenza, unite al fatto che la somministrazione di farmaci antipsicotici potrebbe costituire la prima opzione per assicurare la partecipazione e la riuscita di interventi successivi.

Il tema rimane, dunque, ancora dibattuto: non solo per ragioni di carattere etico e morale, ma anche perché di questi farmaci non si può non considerare anche la possibile comparsa di effetti collaterali di enorme impatto clinico e sociale, quali il rischio di diabete ed obesità, che ben possono gravare anche sui costi dell’assistenza sanitaria. Una maggiore chiarezza unita all’ottimizzazione dei farmaci, all’accuratezza della diagnosi ed allo sviluppo di nuove pratiche cliniche potrebbero dipanare la questione.

Credits immagine: Ol lO/Flickr CC

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