Cosa possiamo imparare dal “mondo di ieri”

Jared Diamond

Il mondo fino a ieri

Giulio Einaudi editore, Torino 2013, pp. 520, euro 29.00

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È sempre un piacere leggere un libro di Jared Diamond. L’autore, celeberrimo Professore di Geografia all’Università di California, Los Angeles, scrive assai bene: la prosa è scorrevole, priva dell’abitudine di ripetere il medesimo concetto declinato in molteplici esempi ridondanti e spesso fuorvianti che caratterizza molti divulgatori scientifici statunitensi, e l’attenzione del lettore è sempre mantenuta viva grazie all’uso parco ma efficace di aneddoti di vita vissuta, ricordi personali, famigliari, amicali. La concentrazione non è distratta da reiterate citazioni bibliografiche ed il linguaggio è privo di inutili tecnicismi. Anche se non si raggiungono i livelli straordinari – in termini di piacevolezza della lettura coniugata ed originalità e vastità degli argomenti – del celeberrimo e pluripremiato Armi, acciaio e malattie, con questa sua ultima fatica “Il mondo fino a ieri. Cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?” qualche ora di piacevole e proficuo relax è assicurata.

E parlo di relax non a caso. Fin dalle prime, efficacissime pagine – ne discuterò più avanti – si ha l’impressione che Diamond si stia divertendo. Innegabilmente gli piace, giunto ai suoi 76 anni, raccontarci con leggerezza e spirito bonario alcuni dei mille episodi di cui è stato diretto o indiretto protagonista nel corso dei suoi molteplici viaggi di studio in Nuova Guinea, e farci partecipi delle sue personalissime esperienze e congetture. Curioso e ben disposto, sempre lontano dall’esprimere giudizi morali o di valore, ci invita a seguirlo nell’esplorazione degli usi e dei costumi – si sarebbe detto un tempo – di quelle ormai numericamente sparute popolazioni che sono vissute fino ad anni recenti nel “mondo fino a ieri”, le più vicine, cioè, alle medesime condizioni in cui si muovevano i nostri antenati cacciatori-raccoglitori una manciata di millenni or sono.

Quanto differisce il loro stile di vita da quello contemporaneo, scientificamente e tecnologicamente immensamente più avanzato? Quanto la conoscenza delle nostre origini può esserci utile per modificare le storture e le problematiche insite nella nostra società “civilizzata”? Cosa possiamo proficuamente re-imparare dal recupero di queste antiche esperienze che il globalizzarsi dello stile di vita occidentale sta irrimediabilmente facendo scomparire o riducendo a livello di mero e contaminato folclore?

Occorre subito sgombrare il campo dal mito del “buon selvaggio” che a Diamond – come alla maggior parte degli antropologi moderni che hanno condotto ricerche sul campo – non appartiene. Nessuna umanità naturalmente buona corrotta dallo scientismo e dal tecnicismo del malvagio Occidente, quindi, ma tanti differenti modi di vivere la quotidianità nelle più diverse situazioni geografiche, in cui popolazioni esigue nel numero e primitive nella tecnologia vengono lette attraverso le modalità con cui si misurano con i problemi e le attività di sempre: la spartizione ed il controllo dello spazio vitale; la comune catalogazione degli individui in persone considerate amiche, nemiche o estranee; la risoluzione dei conflitti in modo a volte più conciliatorio a volte più violento di quelli in uso nelle società contemporanee; le diverse e spesso opposte modalità di educazione dei figli e di cura degli anziani.

I gruppi etnici presi in esame rispondono a queste sollecitazioni in modi diversi. Chi onora i propri vecchi non più abili come utili educatori dei più piccoli e depositari dei saperi indispensabili ad una vita sicura ed una caccia proficua in un habitat ricco di pericoli ed insidie, e chi li sopprime, per lo più consenzienti, in caso di inevitabili veloci spostamenti e penuria di cibo. Chi risponde alle ingiurie con faide famigliari che durano decenni, e chi si affretta a ripristinare con modalità di risarcimento non violente la pace sociale; chi si mostra più benevolo nei confronti dei forestieri e chi difende con ogni mezzo l’esclusività del proprio territorio; chi rispetta il patto di ospitalità e chi ne approfitta per vendicare col sangue antichi torti; chi lascia liberi i propri piccoli di sperimentare situazioni anche pericolose e chi li educa rigidamente a precoci doveri.

Particolarmente interessanti le pagine che Diamond dedica alla “paranoia costruttiva”, termine con cui indica «l’abitudine a riflettere in maniera sistematica sul significato di piccoli indizi ed accadimenti, che singolarmente presi indicano un rischio senz’altro ridotto, ma (…) possono, se ignorati, evolvere in gravi inconvenienti o addirittura in fatalità». Questo atteggiamento, a noi ormai desueto, è riservato anche all’approccio con quegli estranei che, non rientrando nelle categorie conosciute di amico/nemico, consiglia la prudenza, una prudenza che data millenni ma che la nostra società globalizzata ci obbliga repentinamente ad abbandonare.

Cosa rimane nella società tecnologica contemporanea del “mondo fino a ieri?” Le pratiche religiose e scaramantiche, che continuano ad esercitare le funzioni di disinnescare l’ansia, offrire conforto, organizzare l’obbedienza, giustificare la guerra, mentre vanno sempre di più perdendo – ma ci sono chiari segnali di revival – la loro funzione esplicativa dei fenomeni naturali, oggi compito riservato alla scienza. Si è perduta la capacità di parlare più lingue contemporaneamente, comune nelle società tribali dove ogni villaggio possedeva un proprio particolare idioma e, se sono in netto declino le malattie trasmissibili dovute a virus, batteri e parassiti, sono diventate primarie cause di morte le malattie non trasmissibili quali l’ictus, le cardiopatie, il diabete, tipiche delle società opulente e sconosciute in quelle tradizionali dove la penuria di cibo era la preoccupazione primaria e costante e l’attività fisica un obbligo di sopravvivenza.

La posizione dominante che occupa nella contemporaneità la società globalizzata occidentale non si deve certo alla sua intrinseca superiorità, ma a specifici fattori come «la supremazia tecnologica, politica e militare raggiunta grazie alla precoce introduzione dell’agricoltura, a sua volta legata ad una maggiore produttività delle specie vegetali ed animali locali domesticate». Altre superiorità, in ambiti in cui le società tradizionali hanno sperimentato una vasta gamma di approcci diversi, non possono essere rivendicate. Diamond ci lascia con l’augurio che i lettori moderni riescano a «trarre ampi motivi di apprezzamento ed ispirazione dall’enorme e variegato patrimonio delle esperienze umane tradizionali».

Il lettore chiude il libro, sufficientemente soddisfatto e divertito. Gli pare che l’Autore sia stato oltremodo attento a non urtare le suscettibilità più diverse ed a raccontare solamente episodi in cui gli abitanti delle società tradizionali con cui ha avuto contatto – “amici” li chiama sempre – si sono comportati nei suoi confronti in modo pacifico, altruistico ed amichevole (episodi spiacevoli non saranno ovviamente mancati). Eppure, a quanto pare, ha commesso un errore di questi tempi “fatale”. Ha asserito, statistiche alla mano, che le società tradizionali, divise in tribù, risultavano proporzionalmente più violente di quanto lo sia la società moderna: le dispute che hanno conseguenze violente nelle società tradizionali tendevano a cronicizzarsi perché mancava un governo centrale che imponesse la pace ed avocasse a sé il compito di fare giustizia.

Anche non tenendo conto di fenomeni quali la soppressione dei neonati, degli anziani e l’uccisione delle vedove presenti in alcune società tradizionali, le morti per guerre, faide, violenze di vario genere erano in proporzione superiori a quelle della società globalizzata contemporanea. Il concetto non è nuovo e costituisce, tra l’altro, anche il fulcro dell’ultimo lavoro di Steven Pinker. Stephen Corry, direttore di Survival International, accomuna Diamond a Pinker in una feroce polemica, ripresa con grande clamore dai media di tutto il mondo: il libro va condannato perchè «completely wrong – both factually and morally – and extremely dangerous for portraying tribal societies as more violent than western ones … it would do tremendous damage to the movement for tribal people’s rights. Diamond has constructed his argument using a small minority of anthropologists and using statistics in a way that is misleading and manipulative».

Le sue tesi potrebbero danneggiare il Movimento per i diritti degli individui appartenenti alle popolazioni tribali decimati dall’imposizione del potere da parte degli stati nazionali. Il lettore è abbastanza adulto, navigato ed accorto da giudicare da sé e si è sempre battuto affinché ogni concetto, teoria e visione del mondo siamo intrinsecamente contestabili. Sa che ogni affermazione, ogni congettura più o meno avvalorata da ricerche che si dichiarano scientifiche, ogni mera opinione in vario modo espressa sono suscettibili di venire in un modo o nell’altro strumentalizzate: non per questo però accetterà che in nome del politicamente corretto si mettano nuovamente libri all’indice, accusandoli di “corrompere le coscienze” e provocare danni morali e materiali.

Argomenti antichi che richiamano tristi soprusi e desolanti povertà non solo intellettuali. La bellissima immagine con la quale Diamond apre il suo lavoro, la sala del check-in dell’aeroporto di Port Moresby in Nuova Guinea, così simile a tutte le altre sparse nel mondo nonostante in quel Paese, fino ad ottanta anni prima, vivessero ancora tribù dedite nei villaggi all’uso di utensili di pietra, non rappresenta solo la – per molti triste e sconsiderata – fine del “mondo fino a ieri” ma anche e soprattutto l’estrema adattabilità della nostra specie, caratteristica che fa ben sperare per il futuro, sempre più problematico, dell’intera umanità.

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