È ora di rischiare

L’invito non potrebbe essere più chiaro: diamoci una mossa. Fabio Mussi, ministro dell’Università e della Ricerca, ha deciso di suonare la carica e di smuovere le acque stagnanti del mondo accademico, scientifico, industriale. Lo ha fatto alla IV Giornata della ricerca organizzata da Confindustria, a Roma il 19 settembre, alla presenza di tutti coloro che guardano all’innovazione tecnologica come a una strada possibile per far ripartire il paese. Un paese di periferia, dove il mestiere di ricercatore è sempre meno ambito, dove la spesa pubblica in sviluppo tecnologico è ridotta al lumicino, e dove alle aziende medio piccole manca la forza, o il coraggio, di investire per crescere e competere sul mercato globale. Insomma un paese destinato a un inesorabile declino. “La rotta è sbagliata, e non vogliamo finire sugli scogli”, dice Pasquale Pistorio, che dell’associazione degli industriali è Vice Presidente per l’Innovazione e la Ricerca. Il problema è come raddrizzare il timone.

I dati sono quelli noti. L’Ocse relega l’Italia in fondo alla classifica dei paesi più industrializzati relativamente alle esportazioni di beni ad alta tecnologia, alla bilancia dei pagamenti tecnologica, al numero di brevetti registrati. I laureati in discipline scientifiche e tecnologiche sono la metà della media europea. L’investimento in venture capital in rapporto al Pil è molto più basso di quello dei paesi avanzati. “E secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio sull’innovazione della Commissione europea, il valore aggiunto nei settori manufatturieri ad alta tecnologia è inferiore al 10 per cento del Pil, rispetto a una media europea del 14,1%, per non parlare di Giappone e Stati Uniti”, continua Pistorio.

Vista dagli imprenditori, la questione ha radici che affondano soprattutto nella spesa pubblica per la ricerca: 0,56 per cento del Pil, contro lo 0,74 della Francia e lo 0,78 della Germania. Non solo: una cronica mancanza di meritocrazia, il susseguirsi di riforme (tre negli ultimi anni) negli enti di ricerca, la mancanza di collaborazione con il sistema produttivo hanno sostanzialmente ingessato il sistema. Per cercare di prendere al volo quello che sembra essere l’ultimo treno, gli industriali chiedono allora agevolazioni fiscali (per esempio un credito d’imposta pari al 10 per cento delle spese totali di ricerca su 10 anni, supporto alla nascita e allo sviluppo di nuove imprese hi-tech con esenzione dal pagamento degli oneri sociali per gli addetti alla ricerca delle start-up del settore per 8 anni) e finanziamenti mirati a progetti con ricadute industriali. Un pacchetto dal costo complessivo di circa 1,5 miliardi di euro per il 2007 (poco più dello 0,1 per cento del Pil).

Visto dal ministro, il problema ha anche altri volti. Ci sono dei numeri da cambiare, come quelli relativi agli investimenti pubblici. Per dare un segnale, almeno simbolico, Mussi promette 900 milioni in più per il 2007. Ma devono cambiare anche i numeri relativi alla capacità del nostro paese di attingere ai fondi europei: l’Italia partecipa per il 14 per cento al budget comunitario, e ha un ritorno del 9. Dunque servono campagne informative e di formazione per imparare a usufruire delle risorse disponibili. E poi, la nota dolente per le orecchie degli imprenditori. “Il 38 per cento dei nuovi assunti nelle aziende ha a mala pena terminato la scuola dell’obbligo. Altrettanti hanno un diploma superiore. Soltanto l’8,5 per cento viene assunto in base alla laurea. Se dovessimo basarci sulla richiesta del mercato” dice Mussi “potremmo anche chiudere le università”. Dunque più investimenti da parte delle aziende, e anche più coraggio. “Come mai i venture capitalist italiani investono in Malesia, in Corea, a Singapore, in Cina e in Israele, e in Italia si interessano solo del mattone? Se questo paese deve ripartire bisogna condividere il rischio”, sottolinea il ministro. Le piccole e medie imprese italiane devono provare a competere con i paesi avanzati, puntare sulle tecnologie, non accontentarsi dei mercati protetti.

Infine, c’è anche una provocazione per i ricercatori. E’ vero, chi sceglie di passare la vita nei laboratori guadagna, dopo dieci anni, un terzo di un portaborse alle prime armi. E questo non va bene. E’ vero, mancano le infrastrutture, e la carriera accademica segue percorsi che quasi nulla hanno a che vedere col merito. Ma serve anche più intraprendenza. “Alla fine del suo percorso accademico, un laureato italiano è costato circa 500 mila euro. Una parte di questi proviene dalla famiglia. L’altra parte ce l’ha messa lo Stato, cioè i contribuenti. Questa – dice il ministro – è una responsabilità nei confronti della collettività”. Cosa significa? Vuol dire che un giovane ricercatore deve saper osare, deve mettersi in gioco facendo gruppo con i suoi colleghi, e provare a fare il salto verso il mondo della produzione. E invece, c’è chi fino a 40 anni si sente garzone di bottega, attaccato alle gonne del professore.

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