Effetto serra, la Banca Mondiale si discolpa

Da quando James Wolfensohn ne è presidente, nella Banca Mondiale si fa un gran parlare di “regreening”, cioè di maggiore attenzione verso l’ambiente. Finora, secondo molti, queste espressioni di cambiamento si sono tramutate in grosse strategie di comunicazione ma scarsi risultati concreti. Recente è la denuncia, da parte di diverse organizzazioni internazionali, dei potenziali effetti dell’India Coal Rehabilitation Project, il piano di ristrutturazione del settore del carbone indiano la cui realizzazione porterebbe a un aumento delle emissioni di anidride carbonica. Conciliare sviluppo e ambiente non è un affare semplice. Ma a molti – è l’opinione per esempio delle Ong e delle associazioni ambientaliste – sembra che le grandi istituzioni internazionali non abbiano una cultura adatta per cambiare approccio.

Nicholas Van Praag è una persona adatta a parlare di questi nodi, per il suo passato di cinque anni al dipartimento ambientale della Banca, a Washington, e per il suo presente di responsabile delle relazioni esterne dell’ufficio europeo, cosa che lo rende una specie di “punta di lancia” dell’offensiva diplomatica. A Roma per informare i giornalisti e le organizzazioni non governative sulle attività della Banca a cinque anni dall’Earth Summit di Rio, ci dice: “Credo che il nuovo presidente abbia portato l’agenda ambientale molto più avanti di quanto non fosse due anni fa, quando è arrivato. Il numero delle persone che lavorano sull’ambiente, per esempio, è aumentato dalle cento dell’epoca di Rio a trecento. Abbiamo introdotto metodologie e pratiche affinché ogni progetto sia valutato anche dal punto di vista ambientale. Il fatto nuovo è stato quello di non concentrarsi solo sui danni causati dai progetti, ma di integrare l’ambiente nel processo di sviluppo per essere sicuri che questi due fattori siano come le facce della stessa medaglia”.

Ci sono però molte riserve da parte delle Ong. E da un documento interno alla Banca si deduce che le operazioni di valutazione d’impatto ambientale sono poco incisive perché spesso realizzate quando le decisioni sono già state prese.

“Il bilancio è in chiaroscuro. Non è una sorpresa che la Via non sia completamente assimilata dall’istituzione. Tuttavia stiamo lavorando duro perché ci sia maggiore preparazione ambientale negli uffici. Non è facile, ma ogni anno abbiamo una storia migliore da raccontare”.

Ma proprio sulla capacità della Banca di cambiare realmente si concentrano le critiche…

“Guardiamo alle cifre. Dalla Conferenza di Rio del 1992, la Banca ha dato circa 100 miliardi di dollari in prestiti, dei quali 8 in progetti ambientali. Circa 24 miliardi di dollari sono andati nei settori sociali, come istruzione, salute, nutrizione, cose che nei tempi lunghi hanno impatto positivo sull’ambiente. Ma anche gli investimenti nel campo dell’energia, delle infrastrutture e dei trasporti – il 16 per cento del totale – tengono in considerazione questi problemi: da un lato le preoccupazioni ambientali e dall’altro esigenze, anche contrastanti, come la domanda di energia dei paesi in via di sviluppo. Nel 2020 le loro necessità energetiche saranno il doppio di quelle dei paesi dell’Ocse. Consideriamo poi che circa un miliardo e 300 milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno. Migliorare la loro vita comporta decisioni difficili. A mio avviso, è discutibile che la Banca possa dire a nazioni quali Cina e India che non presterà più soldi per progetti nel settore del carbone perché così aumentano le emissioni. L’Italia genera l’85 per cento della energia da combustibili fossili, gli Usa il 60: perché dovremmo dire all’India voi dovete usare i combustibili alternativi?”

Fatto sta che i prestiti al carbone sono superiori a quelli per l’efficienza energetica e per il controllo della domanda e infinitamente superiori agli investimenti del Gef – il fondo globale per l’ambiente al quale contribuisce la Banca mondiale – per mitigare l’effetto serra. Come controllare i cambiamenti climatici se da una parte si cerca di porre un freno alle emissioni e dall’altra si contribuisce al loro aumento?

“Il Gef non è nato per mitigare il riscaldamento del globo, ma per affrontare un serie di problemi uno dei quali è il cambiamento climatico. Sotto la Convezione sui cambiamenti climatici le nazioni industrializzate e quelle in via di sviluppo sono esortate, e questo non è un linguaggio molto forte, a livellare le loro emissioni di gas serra. Se ci fosse un accordo internazionale vincolante che dice “i paesi in via di sviluppo devono tagliare le loro emissioni” e se noi, che siamo una istituzione finanziaria internazionale, prestassimo loro denaro che le mettessero in condizione di generare una maggiore quantità di gas serra allora noi entreremmo in contrasto con tali vincoli. Ma questo accordo non esiste. E’ ingenuo attribuire alla Banca mondiale la responsabilità di aiutare le nazioni in via di sviluppo a procedere sulla stessa via sulla quale hanno camminato le nazioni industrializzate. Noi stiamo lavorando con diversi strumenti per ridurre, quanto è possibile, le emissioni di gas serra, ma non si può demonizzare i prestiti al settore dei combustibili fossili”.

A giugno saranno cinque anni dall’Earth Summit. Non le sembra che il bilancio per la comunità internazionale sia deludente?

“Ci sono stati sviluppi positivi: un centinaio di piani ambientali nazionali formulati, molti con l’aiuto della Banca; 16 paesi stanno eliminando il piombo dalla benzina; il 60 per cento delle sostanze distruttrici dell’ozono è stato eliminato; 164 paesi hanno firmato la Convenzione sul clima e 165 quella sulla biodiversità. E cose meno positive: un quarto della popolazione mondiale è in povertà, non ha accesso ad acqua pulita e vive in condizioni igieniche inaccettabili; aumentano i gas serra: il 25 per cento in più nei paesi in via di sviluppo e il 4 in quelli industrializzati; dai tempi del Summit, il 3,5 per cento della foresta tropicale è stata riconvertito ad usi agricoli; continua il degrado della terra. Penso che la sessione speciale dell’Onu sarà un’opportunità per assestare il tiro e promuovere una nuova presa di coscienza”.

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