Estrogeni contro l’Alzheimer

Ormoni modulatori delle funzioni sessuali. Questa la definizione comune degli estrogeni che mette d’accordo scienziati e non addetti ai lavori. Almeno fino a ieri. Ora, infatti, un gruppo di ricercatori del dipartimento di scienze farmacologiche dell’Università di Milano ha scoperto che gli estrogeni hanno anche una funzione antinfiammatoria. Un ruolo inedito che apre nuove strade per combattere o, quanto meno, rallentare l’insorgenza di gravi patologie del sistema nervoso centrale, a cominciare dall’Alzheimer. “Siamo molto cauti”, ha affermato la responsabile del gruppo di ricerca, Adriana Maggi, durante un workshop internazionale di farmacologia svoltosi al Centro di cultura scientifica “Ettore Majorana” di Erice, “ma, nel contempo, fiduciosi e convinti che un ulteriore, piccolo, passo in avanti è stato compiuto nella comprensione dell’azione dei farmaci, nel caso specifico degli estrogeni”.

La scoperta, di cui è apparsa un’anticipazione sul “Journal of Neuroscience” nell’aprile scorso, é avvenuta mentre i ricercatori stavano osservando l’azione degli estrogeni in un topo geneticamente modificato: “Non ci aspettavamo proprio che la molecola interagisse con macrofagi e microglia”. Cioè a dire che gli ormoni hanno cominciato a modificare il comportamento, disinfiammandole, di quelle cellule che hanno il compito di ripulire il sistema nervoso centrale. Da qui dunque l’idea che l’impiego degli estrogeni possa avere positive implicazioni per la cura di malattie degenerative. “Alcuni studi ipotizzano”, spiega Maggi, “che uno dei cofattori dell’Alzheimer sia proprio l’infiammazione dei neuroni; pertanto, se noi riuscissimo a rallentare il processo infiammatorio, agendo su quello che sembra essere uno dei più importanti fattori scatenanti della malattia, potremmo evitarne l’insorgenza o, nel peggiore dei casi, ritardarla di alcuni anni”. E se si considera che questa, come altre forme di demenza, colpisce in età senile, riuscire a ritardare l’avvento della malattia assume una valenza significativa.

Ma l’obiettivo del gruppo guidato da Adriana Maggi è ancora più ambizioso: veicolare i farmaci a base di estrogeni verso un singolo organo bersaglio. Solo nell’osso, solo nel sistema nervoso centrale, oppure solo a livello cardiaco. Gli estrogeni infatti sembrano avere importanti ruoli sulla salute dell’osso – combattono la graduale perdita di calcio che colpisce, con intensità diversificata, tutte le donne nel periodo post-menopausa – e anche a carico del sistema cardio-circolatorio (le donne in età fertile, infatti, come dimostrano numerosi studi, sono maggiormente protette contro ischemie e infarti del miocardio). Ma all’azione benefica si contrappongono gli effetti collaterali, anche significativi e di natura neoplastica a carico di mammella e utero. Per questo gli scienziati dell’Università di Milano stanno tentando di realizzare un sistema in grado di colpire solo la parte da curare.

I primi risultati delle sperimentazioni su topi geneticamente modificati saranno pubblicati fra un paio di mesi sul “Journal of Molecolar Endocrinology”. Si tratta di individuare il punto preciso dove il farmaco attacca la cellula malata. “Nei prossimi mesi contiamo di migliorare la sperimentazione e di poterla fare addirittura in vivo sul topo: impiegando un gene che codifica per la luciferasi (sostanza che viene estratta dal Dna delle lucciole e che possiede un potere luminescente) saremo in grado di osservare “in diretta” dove la molecola del farmaco va a legarsi”. Il futuro della farmacologia avanzata ha infatti come traguardo primario la possibilità di poter direzionare, a proprio piacimento, i farmaci all’interno del nostro organismo. L’azione sarà diretta sui recettori intracellulari: “Se leghiamo un recettore con il suo ormone naturale (nel caso specifico della sperimentazione sul topo sono stati impiegati gli estrogeni) questo agirà su tutti gli organi e i tessuti”, va avanti Maggi. “Se invece leghiamo il recettore con un farmaco modificato (una molecola ad hoc) agirà soltanto su un tipo omogeneo di cellule e, quindi, di tessuto”. Il meccanismo, concettualmente semplice, nella pratica è assai complesso: bisogna tener conto del fatto che i recettori lavorano con proteine corregolatrici che possono attivare o reprimere gli stessi recettori.

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