Etna l’africano

Proprio in questi giorni è ricominciato lo spettacolo dei suoi giochi pirotecnici. Ma nonostante tutto, l’Etna resta per i geologi un vero e proprio rebus. È infatti il solo vulcano del Mediterraneo situato sulla crosta continentale a eruttare basalti oceanici di media profondità, tipici delle faglie sottomarine. Come se, invece di sorgere sulle coste della Sicilia orientale, si trovasse sul fondo dell’oceano. Un fenomeno tanto strano da stimolare la curiosità di Zohar Gvirtzman e Amos Nur, geofisici all’Università di Stanford, che formulano ora una nuova teoria sulla sua formazione e sulle cause della sua abbondante attività eruttiva. La soluzione del rebus appare ora sulle pagine di Nature: l’Etna è sì un vulcano terrestre, ma le sue caratteristiche geofisiche, tipiche dei vulcani sottomarini, dicono che il gigante affonda le sue profondissime “radici” sotto la placca africana. E’ per questo che i materiali espulsi dai suoi crateri risultano diversi, dal punto di vista geochimico, sia da quelli eruttati dai vulcani del sud Italia (di cui l’Etna è la prosecuzione ideale), sia da quelli delle isole Eolie, distanti solo poche decine di chilometri.

Per svelare l’enigma dell’Etna i ricercatori hanno analizzato la sua particolare posizione geografica: il punto di congiunzione della placca africana con quelle ionica e tirrenica. Attraverso un modello tridimensionale, gli studiosi americani mostrano come la particolare conformazione delle tre placche abbia generato, proprio in quel punto della Sicilia, un vulcano particolarmente attivo. A renderlo così speciale è una depressione, originata dal movimento discendente della placca ionica, che cominciò a inserirsi sotto quella tirrenica 700 mila anni fa. Da questa infossatura s’insinua, negli spazi rimasti “vuoti” tra la placca tirrenica e quella ionica, del materiale proveniente dall’astenosfera, una zona situata tra 100 e 400 chilometri di profondità sotto la placca africana, nella quale il mantello è parzialmente fuso. Poi il magma si separa dagli altri materiali, fino a raggiungere la crosta terrestre, dando vita al più grande vulcano d’Europa. Niente a che vedere, dunque, con il Vesuvio e i vulcani delle Eolie, che invece poggiano interamente sulla placca tirrenica, e sono alimentati da materiali di livello più superficiale, al confine tra la crosta e il mantello.

Un caso rarissimo, quindi, e non solo nel Mediterraneo: nel resto del mondo, sono stati rinvenuti analoghi materiali eruttivi solo nell’estremo nord dell’arco di Tonga, nella parte occidentale dell’oceano Pacifico. “Nella maggior parte dei casi”, spiegano Gvirtzman e Nur, “questi materiali non trovano la via per raggiungere la crosta terrestre, e si fermano al di sotto dell’arco magmatico, senza dar vita a fenomeni di tipo vulcanico”. Ma i due geofisici sono andati oltre. Secondo il loro studio, il movimento discendente della placca ionica combinato con l’afflusso dei materiali astenosferici giocherebbe un ruolo importante anche nella recente storia geologica delle aree circostanti l’Etna. Il loro inserimento tra le placche avrebbe causato anche l’innalzamento della Calabria, e sarebbe stato responsabile della crescente attività vulcanica nelle isole Eolie da ovest verso est, collegando, in un unico arco magmatico, le isole di Salina, Lipari e Vulcano.

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