Exxon Valdez: la lunga convalescenza

Troppo poco ossigeno e troppo pochi nutrienti tra le sabbie delle spiagge che costeggiano lo stretto di Prince William, in Alaska. Per questo parte del petrolio che più di vent’anni fa fuoriuscì dalla Exxon Valdez è ancora lì (vedi Galileo), al contrario di quanto previsto dagli scienziati.

A “mangiarsi” la maggior parte dei  42.000 metri cubi di olio nero che hanno inquinato oltre 1.900 chilometri di coste ci ha pensato la natura stessa, grazie ai batteri responsabili della biodegradazione aerobica (vedi Galileo). Ma le sabbie dell’Alaska, purtroppo, non presentano le condizioni adatte, e la biodegradazione è da tempo rallentata.

Nei dodici mesi che hanno seguito l’incidente, il 70 per cento del petrolio è stato biodegradato e i calcoli indicavano che sarebbe scomparso nei pochi anni a seguire. Già otto anni fa, però, la velocità di degradazione era calata vertiginosamente al 4 per cento l’anno, e restavano ancora 76.000 litri dispersi tra le sabbie. La spiegazione di questo fenomeno arriva dai ricercatori della Temple University (Usa) dopo uno studio durato tre anni, i cui risultati sono ora pubblicati su Nature Geoscience. Secondo Michel Boufadel, direttore del Center for Natural Resources Development and Protection dell’ateneo statunitense, le spiagge dello stretto di Prince William sono formate da due strati: uno superiore, altamente permeabile, e uno inferiore, a una bassissima permeabilità (per farsi un’idea, si pensi che l’acqua si muove nello strato superiore circa mille volte più velocemente che in quello inferiore). Sebbene i due strati siano costituiti degli stessi elementi e minerali, quello sottostante è infatti molto più compatto.

Questa condizione – che implica bassi livelli di ossigeno e di nutrienti – avrebbe creato una sorta di riparo per il petrolio, che spesso giace appena una decina di centimetri sotto l’interfaccia tra i due strati. Poiché ossigeno e nutrienti sono necessari alla sopravvivenza dei microrganismi che mangiano il petrolio, è probabile che al momento stia avvenendo una biodegradazione anaerobica, molto più lenta di quella aerobica.

Uno studio del 1994 aveva già evidenziato una bassa concentrazione di nutrienti in queste spiagge. Boufadel e i suoi colleghi hanno confermato ora che questa è dieci volte più bassa di quella richiesta per una biodegradazione ottimale. “Per quanto riguarda l’ossigeno, ce ne sono grandi quantità nelle acque marine – spiegano i ricercatori -, e sarebbe logico pensare che il gas possa diffondersi e arrivare al petrolio, ma lo stesso movimento di risalita dell’acqua lo blocca”. Il team sta ora passando in esame i possibili modi per portare artificialmente ossigeno e nutrienti negli strati in cui è depositato il petrolio, e accelerare nuovamente la degradazione. (t.m.)

Riferimento: “Long-term persistence of oil from the Exxon Valdez spill in two-layer beaches

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