Fare l’insegnante a Scampia

Carla Melazzini
Insegnare al principe di Danimarca (a cura di Cesare Moreno)
Sellerio 2011, pp. 312, euro 14,00

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“Insegnare al principe di Danimarca” è un libro prezioso per chi insegna nei quartieri maltrattati dal disagio sociale e inquinati dalla malavita. E per chi non si rassegna ai mali del mondo. Carla Melazzini, insegnante di scuola superiore prestata a un progetto napoletano di recupero scolastico, scrive le storie di formazione di ragazzi molto difficili. Figli dei rioni degradati di una Napoli un tempo operaia, oggi ridotti a territorio di guerra di bande criminali. Barre, Ponticelli, Scampia. Periferie della città, periferie dell’anima. Provare a tirarli fuori si può, ma in una scuola non-scuola, inventandosi passo passo metodi e strumenti, tra cadute e illuminazioni.

Una lettura emozionante, si è detto in qualche recensione, come anni fa la Lettera di don Milani. Qui però non ci sono i Gianni e i Pierini, le icone di una differenza di classe che allora sembrava spiegare tutto, successi e fallimenti. E neppure le mille parole per non restare indietro nella scuola e nella vita. Enzo, Salvatore, Concetta, Mimmo, il bisogno di imparare l’hanno perso, bruciato dalle povertà e dalla prossimità con la violenza. Logorato da una scuola che guarda alle discipline più che alle persone, e da un sapere che non buca la superficie. Lo sguardo di chi scrive è alieno da ogni retorica, libero da inutili indulgenze. Nella povertà c’è anche dipendenza, e attaccamento ai suoi “vantaggi secondari”. Nelle mamme, l’inconfessabile paura che un successo scolastico dei figli possa rendere palesi i propri fallimenti, e insostenibile una condizione sentita come immodificabile.

Le “radici”– gli stessi cognomi scritti in rosso sui tabelloni dei bocciati e scritti in nero sugli annunci funebri dei morti ammazzati – tirano altrove. Sono tante le ragazze che si rifugiano in gravidanze precoci, travolte dal panico di dover smentire, con quello che l’istruzione promette, il modello di vita delle mamme e delle nonne. Sono tanti i ragazzi tentati di riscattare le proprie debolezze con il “rispetto” che si acquista affiliandosi al “sistema”. “ Solo lentamente – scrivono gli insegnanti – ci siamo resi conto di quanto la nostra presenza e azione, proprio perché accogliente, potesse essere percepita come pericolosa, aprendo prospettive di relazioni e di vita sentite come inaccessibili”.

Missione impossibile, dunque? Si ridimensiona, certo, ogni onnipotenza pedagogica, la pretesa che a raggiungere l’obiettivo basti insegnare efficacemente. Con quelle frustrazioni, emozioni, collere, violenze, bisogna entrare in rapporto e dargli un riconoscimento (proprio come si riconoscono gli eccessi del principe di Danimarca), impresa difficile “per insegnanti di ordinaria cultura e umanità”. Per semplici “maestri di strada”. E però i successi ci sono. Lo testimoniano le pagine sull’apprendimento della lingua. Dal chiasso alla parola. Dalla lingua dei corpi, dal dialetto “marcatore” di alterità a un linguaggio piano e corretto che mette ordine nel caos delle emozioni e spalanca la finestra del dialogo. Dalla grafia smozzicata di una alfabetizzazione scadente ai miracoli di nettezza restituiti dal computer. Sicurezze che consentono di lasciarsi alle spalle vittimismi e paure, e perfino di superare l’ansia dell’esame.

Ma i successi del progetto Chance non sono bastati a dargli continuità. Tutte le istituzioni che l’hanno reso possibile per 11 anni si sono una dopo l’altra, e inspiegabilmente, defilate. Anche Carla Melazzini, valtellinese di nascita, studi alla Scuola Normale di Pisa, napoletana per scelta, se ne è andata per sempre. Il libro che raccoglie le sue riflessioni, curato dal suo compagno Cesare Moreno, dà conto del valore che ha la scommessa educativa nei luoghi più difficili. Agli amici che hanno condiviso con lei le spericolate avventure di una generazione che voleva cambiare il mondo, addolcisce un poco la pena.

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