Come procede la ricerca sui farmaci anti COVID-19

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(Foto: James Yarema on Unsplash)

Stando agli ultimi dati epidemiologici, i vaccini stanno funzionando. E stanno funzionando bene – almeno nella parte fortunata del pianeta, i Paesi più ricchi che si possono permettere di comprarli e distribuirli: l’ultimo monitoraggio settimanale della Fondazione Gimbe, per esempio, fa sapere che in Italia si registrano dati “in netto miglioramento”, una diminuzione del 34,1% dei nuovi casi rispetto alla settimana precedente e un calo del 17% e del 19% dell’occupazione dei posti letto in aerea medica e terapia intensiva. E nella giornata di domenica 16 maggio i decessi sono scesi sotto le 100 persone per la prima volta dallo scorso ottobre. Tutto, o quasi, grazie ai progressi della campagna di immunizzazione in corso. Nonostante questo, dobbiamo fare i conti con il fatto che arrivare a somministrare i vaccini a tutte le persone che ne avrebbero bisogno, a livello globale, è al momento una chimera, e probabilmente lo resterà ancora a lungo: in quasi tutti i Paesi a basso e medio reddito, infatti, le vaccinazioni procedono a ritmi lentissimi, con quote di popolazione vaccinata ancora sotto l’1%. E dato che non si riuscirà a vaccinare tutti, è importante anche capire come fermare la malattia in chi l’ha contratta, o per lo meno mitigarne i sintomi più gravi per ridurre ospedalizzazioni e morti. In altre parole, abbiamo assoluta necessità di individuare terapie efficaci contro Covid-19, e di farlo alla svelta.


Perché la vaccinazione da sola non basta per eradicare Covid-19


Al momento non esistono ancora trattamenti dall’efficacia accertata. Tuttavia, i trial clinici condotti finora ci hanno aiutato a identificare alcune molecole che sembrano più promettenti di altre e ad accantonare approcci che si sono rivelati poco efficaci. Le classi di farmaci su cui ci siamo concentrati sono sostanzialmente tre: gli antivirali, quelli che cercano di impedire che il virus entri nelle cellule e/o si replichi (per esempio quelli usati per il trattamento dell’hiv o dell’epatite), gli imitatori del sistema immunitario, che dovrebbero potenziare le difese naturali del nostro organismo (per esempio gli anticorpi monoclonali e il plasma iperimmune) e gli antinfiammatori, che invece raffreddano il sistema immunitario, dal momento che si è visto che i sintomi più gravi di Covid-19 sembrano essere legati proprio a un’eccessiva risposta immunitaria e al conseguente stato fortemente infiammatorio.

Gli antivirali sono stati i primi farmaci a essere studiati. Già a marzo scorso l’Organizzazione mondiale della sanità aveva avviato una sperimentazione per testare quattro diversi trattamenti (il remdesivir, l’idrossoclorochina, la combinazione di lopinavir e ritonavir, già usati contro l’Hiv, e l’interferone, che invece è un immunomodulatore) che, a fine ottobre, era arrivata a coinvolgere oltre 11mila partecipanti da 30 nazioni diverse. Sfortunatamente, nessuna di queste terapie si è mostrata di significativa utilità nel salvare vite o ridurre le ospedalizzazioni da Covid-19: i risultati della sperimentazione suggeriscono che i farmaci antivirali possono avere una moderata efficacia solo se somministrati nelle primissime fasi dell’infezione, subito dopo un tampone positivo.

Stesso discorso per gli anticorpi monoclonali e per il plasma iperimmune. I primi sono saliti agli onori delle cronache grazie a Donald Trump, paziente illustrissimo cui sono stati somministrati a ottobre 2020, quando si ammalò di Covid-19. Trump ricevette un preparato messo a punto dalla biotech americana Regeneron, composto da due anticorpi monoclonali, casirivimab e imdevimab, estratti da un paziente di Singapore e ottenuti in laboratorio isolando la proteina spike del coronavirus nell’organismo di un topo modificato geneticamente per fornirgli un sistema immunitario umano. Tuttavia, gli studi finora pubblicati non consentono ancora di arrivare a conclusioni definitive sull’efficacia di questi trattamenti: quello che sappiamo è che non funzionano nelle fasi avanzate della malattia, ma vanno somministrati nelle fasi precoci, e che comunque non sembrano ridurre più di tanto ospedalizzazioni e decessi. Questo elemento, insieme ad altre criticità legate alla difficoltà di somministrazione e all’alto costo di produzione di questi farmaci, ha per il momento raffreddato le aspettative della comunità scientifica rispetto al trattamento. Stesso discorso per il plasma dei guariti, che stando ai risultati dello studio clinico italiano Tsunami, promosso dall’Istituto superiore di sanità e dall’Agenzia italiana per il farmaco, sembra non apportare benefici ai pazienti; al più qualche timido vantaggio, ancora da confermare, potrebbe ridurre i sintomi nei pazienti con Covid lieve o moderato.

Gli antinfiammatori sembrano invece più promettenti. A giugno 2020 lo studio Recovery, condotto nel Regno Unito, ha mostrato che il desametasone, un corticosteroide dagli effetti antinfiammatori e immunosoprressori, riduce la mortalità dei pazienti Covid-19 ventilati; un altro trial, il Remap-Cap, ha scoperto che le molecole che bloccano il recettore di una proteina chiave del sistema immunitario (la cosiddetta interleuchina-6, IL-6) possono ridurre la mortalità nei pazienti con forme gravi della malattia. Per queste ragioni, oggi i trattamenti a base di desametasone, da solo o in combinazione con gli inibitori del recettore IL-6, sono diventati lo standard terapeutico d’emergenza in molti paesi del mondo. Ma non è abbastanza: “Alcuni pazienti”, ha commentato a Nature Anthony Gordon, anestesista dello Imperial College di Londra, “restano malati anche dopo questi trattamenti”.

Per questo motivo, l’Organizzazione mondiale della sanità ha appena avviato un nuovo trial, Solidarity, che ha l’obiettivo di studiare ancora più a fondo l’efficacia dell’approccio antinfiammatorio a partire dai risultati promettenti osservati nei pazienti ospedalizzati. Il trial, in particolare, si concentrerà su tre molecole: l’infliximab, un farmaco usato per il trattamento di disturbi autoimmuni come il morbo di Crohn e l’artrite reumatoide, che funziona bloccando una proteina chiamata fattore di necrosi tumorale (TNF-α); l’imatinib, un antitumorale che – si spera – possa combattere sia l’infezione che l’infiammazione, bloccando l’infiltrazione del virus nelle cellule e riducendo l’attività delle citochine, proteine che promuovono l’infiammazione, ed evitare la fuoriuscita di fluidi dai vasi sanguigni che circondano i polmoni; l’artesunato, un antimalarico dai potenziali effetti antinfiammatori. Ciascuno di questi farmaci sarà somministrato insieme alle terapie standard, e i primi risultati del trial dovrebbero essere disponibili nei prossimi mesi.

Nel frattempo, anche Remap-Cap andrà avanti nelle sperimentazioni, testando un altro farmaco che si concentra sul Tnf-α e il namilumab, una molecola che potrebbe ridurre l’attività delle citochine. L’importante è stare attenti a non esagerare: il rovescio della medaglia dell’approccio del raffreddamento del sistema immunitario sta nel fatto che se si sopprime troppo la difesa dell’organismo i pazienti potrebbero diventare vulnerabili ad altre infezioni. I risultati dei trial ci aiuteranno a capirlo.

Via: Wired.it

Credits immagine: James Yarema on Unsplash