Farmaci su misura, servono regole

“La possibilità di realizzare, con lo studio dei geni, farmaci personalizzati è un’ipotesi estremamente attraente e che ha già dato prime conferme”. Lo sostiene il professor Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerca farmacologica “Mario Negri” di Milano. Un campo di ricerca dove l’Italia deve investire in prima persona perché “studi fatti in altri Paesi possono non adattarsi al nostro tipo di genoma”. E perché si devono affrontare da subito i problemi etici legati a questo tipo di pratica. Come sempre quando si parla di informazioni genetiche è la privacy e la volontà del paziente a dover essere tutelate per prime. “E’ importante che il paziente abbia la massima libertà e che i comitati etici siano in grado di giudicare la validità della ricerca”, va avanti il farmacologo. Il tutto deve essere fatto nel pieno “rispetto della privacy” e “le informazioni devono ritornare al paziente”. Ma l’efficacia della ricerca si misura anche attraverso la capacità di rendere pubblici i risultati: “quelli che sono di pubblico interesse devono realmente essere a disposizione di tutti”. Del futuro della buona pratica farmacogenetica si è discusso al Centro di cultura scientifica “Ettore Majorana” di Erice, durante un workshop.

Il farmaco “su misura” dovrebbe riuscire a centrare esattamente il meccanismo che scatena la malattia o il sintomo che si vuole curare: “Se l’azione del farmaco è determinata dall’espressione di uno specifico target (cioè agisce su una determinata molecola, proteina, recettore) è inutile dare quel farmaco a pazienti che non presentano quel target. E poi, se l’azione del farmaco dipende dal fatto che venga metabolizzato in un certo modo, è inutile somministrarlo a pazienti che non metabolizzano in quella direzione”. Ma la strada, anche per una serie di problemi di natura tecnica, è ancora lunga: “stiamo parlando di ipotesi che devono essere prima dimostrate e poi validate”. L’incontro di Erice per Garattini ha permesso a un “gruppo etereogeneo di confrontarsi, attraverso una metodologia molto interessante: mi auguro che gli incontri proseguano per poter giungere alla stesura di un documento che sia condiviso”. Per questo la Scuola Internazionale di Farmacologia di Erice, diretta da Giampaolo Velo dell’Università di Verona, ha attivato un gruppo di studio. “Fra i nostri obiettivi”, dice Velo, “c’è anche quello di far conoscere l’articolata e complessa problematica della farmacogenetica alla popolazione: se non si spiega cosa i ricercatori intendono fare e come intendono agire, difficilmente si potrà trovare collaborazione fra la gente e, quindi, fra i pazienti”. Del resto, come ricorda Garattini “per dimostrare che un farmaco è efficace su un soggetto e inefficace in un altro, dobbiamo dimostrare, con la sperimentazione, se la diversa azione del farmaco dipende dalla base genetica”. In pratica bisogna analizzare il Dna e verificare se nel gene che produce quella proteina su cui il farmaco agisce c’è una differenza che spieghi per quale ragione questo non funziona.

“Oggi non si sono regole”, spiega Maria Del Zompo, farmacologa dell’Università di Cagliari, “i primi a volerle siamo noi ricercatori, perché intendiamo da un lato tutelare il nostro lavoro e la nostra professionalità e dall’altro rispettare le volontà del paziente, cioè a dire del donatore del campione di Dna”. L’orientamento, in linea generale, è quello di affidare al paziente che si presta alla ricerca la possibilità, in ogni momento, in qualsiasi istante, di decidere se interrompere gli studi. “Il paziente”, va avanti Del Zompo, “deve essere messo nelle condizioni di poter chiedere, quando lo desidera, la distruzione del campione di Dna donato”. Deve essere lui, quindi, ad avere la chiave di accesso. “Ecco perché”, conclude Velo “è di fondamentale importanza coinvolgere la popolazione”.

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