Fine vita: cosa è la sedazione profonda

sedazione profonda
(Foto: Bret Kavanaugh on Unsplash)

La notizia della morte di Fabio Ridolfi, quaranteseienne di Fermignano che ha scelto la sedazione profonda dopo che da diciotto anni era immobilizzato da una tetraparesi che gli aveva lasciato solamente la capacità di comunicare con il movimento degli occhi, riempie la cronaca di oggi. Se ne parla soprattutto ora, ma il caso sollevato da quest’uomo dura da molti mesi e riguarda ancora una volta la difficoltà di intraprendere strategie che allevino la sofferenza e accompagnino il fine vita di malati terminali che, come Ridolfi, lo desiderino. Nel caso specifico, ritardi e impedimenti hanno reso la via del suicidio assistito – a cui l’uomo era stato dichiarato idoneo – poco percorribile, tanto che il paziente ha deciso di chiedere la sedazione palliativa continua profonda, iniziata ieri mattina e continuata per circa una giornata.

Cos’è la sedazione palliativa continua profonda

La sedazione palliativa continua profonda è stata regolamentata dalla legge sulle Dat (disposizioni anticipate di trattamento, in vigore dal 31 gennaio 2018), grazie alla quale è diventata un’opzione attraverso cui il paziente può chiedere di essere sedato in maniera continua e di interrompere al tempo stesso ogni forma di terapia, compresa quella nutrizionale. Si chiama palliativa perché induce una copertura – nel senso di abolizione – della sofferenza che caratterizza le fasi finali della vita. Si definisce profonda perché, oltre al dolore, provoca una privazione dello stato di coscienza, pur mantenendo inalterate le capacità vitali, dalla respirazione autonoma all’attività cardiaca. La sedazione profonda avviene attraverso l’infusione di un insieme di farmaci, si raggiunge in pochissimo tempo e – nel caso in cui essa sia continua – si mantiene nel tempo aumentando la dose del farmaco gradualmente man mano che il corpo si abitua.

“La sedazione è una condizione che si differenzia dal coma farmacologico innanzitutto perché meno impegnativa dal punto di vista clinico, in quanto il coma spesso si accompagna all’arresto respiratorio, e il paziente deve essere intubato e ventilato” spiega a Wired Mario Riccio, medico anestesista, consigliere dell’associazione Coscioni e consulente tecnico del collegio legale che ha sostenuto le ragioni di Ridolfi. “È anche molto diversa dall’anestesia generale: i piani di profondità delle due, infatti, sono molto differenti. La sedazione, come si intuisce dalla parola stessa, è una condizione più superficiale. In una scala di grigi, dal bianco al nero, in cui il nero rappresenta l’anestesia generale, la sedazione comprende varie scale di grigi. Ci sono sedazioni molto blande, come per esempio quelle somministrate dal dentista o in occasione di una gastroscopia, in cui il paziente rimane collaborativo pur avendo assenza di ansia, dolore e coscienza. La sedazione palliativa continua profonda possiamo immaginarla a metà fra la sedazione leggera (o meglio, profonda ma non continua) e l’anestesia generale, in cui vi è anche la sospensione della capacità respiratoria.”

Chi decide

In Italia, attualmente, la sedazione continua profonda si applica nel caso di malati terminali – in ospedale o a casa – per alleviare la sofferenza della malattia. Il momento in cui questa procedura si rende necessaria viene valutato congiuntamente dai medici che curano il paziente e dai medici palliativisti. Nella decisione, però, devono intervenire anche il paziente o i familiari.

“È una decisione che dovrebbe spettare al medico e al paziente, ma ci sono alcune situazioni in cui quest’ultimo non è già più in grado di intendere e di volere; pertanto, la decisione deve essere presa dal medico e dai parenti” spiega Riccio. “Questo, specialmente se il paziente ha redatto le direttive anticipate, le Dat. Se egli ha dato disposizioni attraverso le Dat affinché si proceda per una terapia di sedazione palliativa profonda infatti, anche se lui perde la facoltà di decidere – prendiamo per esempio il caso di un paziente con un tumore cerebrale – il medico può decidere di cominciare questo percorso già precedentemente pianificato. Questa è la condizione migliore”.

Non è morte medicalmente assistita

Sebbene l’esito sia lo stesso, tecnicamente la morte medicalmente assistita – che comprende due strade, l’eutanasia e l’aiuto al suicidio – è molto diversa dalla sedazione palliativa continua profonda. In quest’ultima, infatti, non vi sono azioni attive volte a interrompere le funzioni vitali, come previsto nell’atto eutanasico o nel suicidio assisitito, ma vi è la sospensione di tutte le terapie che il paziente fino a quel momento riceveva, assieme alla sedazione. 

“Nella categoria morte medicalmente assistita – suicidio assistito ed eutanasia – c’è un’azione diretta mirata attraverso l’uso di farmaci che interrompono l’attività cardiaca e respiratoria” spiega Riccio. “Questo porta il paziente a morire in un tempo molto breve, nel giro di pochi minuti. Nella sedazione palliativa continua profonda, invece, come gli ultimi due esempi in Italia hanno mostrato (quello del politico Antonio La Forgia che è durata qualche giorno, e quella di Fabio Ridolfi che è durata circa una giornata), non vi è un tempo definito perché dipende dalle condizioni generali del paziente – dalle sue condizioni respiratorie, cardiocircolatorie, dalle riserve energetiche e dalla capacità di resistere senza terapie. Solitamente, comunque, ha una durata media che va dai 3 ai 5 giorni”.

In Italia, una delle due vie della morte medicalmente assistita è vietata e costituisce reato: l’eutanasia. Il suicidio medicalmente assistito, invece, grazie alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, è diventato una via percorribile. Nella pratica, consiste nel ricevere l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico. Le condizioni richieste sono quattro: la persona che ne fa richiesta (il paziente) deve essere pienamente capace di intendere e volere, deve avere una patologia irreversibile, gravi sofferenze fisiche o psichiche, e deve sopravvivere grazie a trattamenti di sostegno vitale. La legge ha stabilito che colui che assiste la persona in questa procedura non è punibile e non va incontro a conseguenze legali.

Il caso Ridolfi

Circa quattro mesi fa e come da procedura, un’apposita commissione ospedaliera ha accertato che vi fossero le quattro condizioni per il suicidio medicalmente assistito. La difficoltà, però, nel caso di Fabio Ridolfi – ed è ciò che l’ha indotto a propendere, in seguito, per la via della sedazione palliativa continua profonda – è che poteva muovere solo gli occhi e comunicava attraverso un puntatore ottico e un sintetizzatore vocale. Occorreva quindi trovare un sistema mediante il quale egli riuscisse a comandare, attraverso gli occhi, la pompa infusionale per iniettare il farmaco. Questa è una condizione necessaria nel caso di suicidio assistito: l’azionamento della pompa infusionale deve essere attuato dal paziente stesso. 

“Noi come collegio legale abbiamo chiesto che fosse trovato un sistema per azionare la pompa infusionale tramite il movimento degli occhi e il computer” dice Riccio. “Sicuramente questo caso specifico fa riflettere sull’importanza di avere una legge, nel nostro paese, che comprenda anche l’eutanasia. Ridolfi, in totale autonomia, a questo punto ha deciso di intraprendere un altro percorso: far sospendere ogni terapia, anche quella nutrizionale, e procedere con la sedazione profonda”. 

Via: Wired.it

Credits immagine: Bret Kavanaugh on Unsplash

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