Giù le mani dal Web libero

No alla censura su Internet. Questo è lo slogan della petizione per abrogare la nuova legge sull’editoria. Oggi infatti sul sito di Punto Informatico è iniziata la raccolta di firme da presentare al Parlamento che verrà eletto dopo il 13 maggio. E, in poche ore, hanno aderito più di seimila persone. E più di duecento siti si sono affiliati all’iniziativa. Queste le reazioni del popolo della rete a due giorni dall’entrata in vigore della nuova legge sull’editoria che regola anche quella elettronica. Una insurrezione collettiva contro un provvedimento incapace di regolamentare le molteplici realtà che convivono nella Rete, considerato liberticida nei confronti dello spirito del Web. Un territorio virtuale che va sì regolamentato, ma al quale, a detta dei cybernauti che ogni giorno lo alimentano di nuovi contenuti, non si possono applicare le stesse rigide norme del “mondo reale”. La nuova legge sembra fatta apposta per tutelare soltanto gli interessi delle grosse aziende editoriali on line che, venendo equiparate a quelle cartacee, possono usufruire dei contributi statali alla stampa.

La nuova norma sull’editoria riguarda ogni sito Internet che produce “informazione” (praticamente tutti). Peccato che, tanto per cominciare, la definizione di cosa sia “informazione” rimanga piuttosto ambigua. Chi “informa” attraverso il proprio sito Web deve dichiarare sulla home page il nome e l’indirizzo dell’autore-editore dei testi e la locazione del server. Se poi l’informazione viene aggiornata con una cadenza regolare (quotidianamente o settimanalmente) il sito, anche una semplice home page personale, viene praticamente equiparato a una testata giornalistica, e serve la registrazione presso il tribunale e la nomina di un direttore responsabile.

Ma il fluido mondo della Rete è fatto di realtà assai diverse, che spesso non possono essere ingabbiate nelle rigide maglie di questa legge. Per esempio, che dire dei siti gestiti da più persone, che magari non vivono nemmeno nello stesso luogo? Chi ne è l’editore? O i gruppi di discussione senza un moderatore? Tra l’altro, per sfuggire alle nuove disposizioni, non basterà far ospitare il proprio sito da un server straniero perché ciò che conta per la legge italiana è il luogo in cui le informazioni vengono caricate (upload) o scaricate (download). Non contento, il legislatore ha esteso la responsabilità, non più penale ma amministrativa, anche ai provider che vengono multati se ospitano siti non in regola.

Così, fatta eccezione per poche realtà dal 4 aprile scorso, circa il 95 per cento dei siti italiani potrebbero essere considerati “stampa clandestina”. Compresi i siti personali, quelli che raccolgono gli appassionati di qualche disciplina e i portali, per i quali l’informazione è un’attività collaterale, spesso prodotta da professionisti che scrivono articoli, ma non sono iscritti all’albo dei giornalisti professionisti. D’altra parte, il “Registro degli operatori di comunicazione” che dovrebbe raccogliere tutte le realtà “miste” e non tipicamente giornalistiche è un capitolo ancora da scrivere.

A consolare il popolo del Web resta il fatto che, come spesso accade quando si tenta di regolare Internet con i vecchi criteri del “mondo reale”, le difficoltà più grosse paradossalmente non saranno dei cybernauti, ma delle autorità. Quanto tempo servirà alla polizia informatica italiana per scovare le decine di migliaia di siti potenzialmente fuori legge? E che sforzo richiederà aggiornare la lista tenendo conto di quelli che chiudono, si trasferiscono o scompaiono? E se una testata italiana prende il suffisso di un paese straniero, allora alla giustizia italiana toccherà viaggiare attraverso il pianeta per punire i contravventori. Insomma, un garbuglio dal quale non è chiaro come uscire.

L’altra ipotesi invece, è che la petizione abbia successo e il numero di firme raccolte sia sufficiente per indurre il nuovo Parlamento a ritornare sui suoi passi. E data la mobilitazione delle ultime ore, potrebbe anche accadere.

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