H5N1: se mutato, si può trasmettere per via aerea

La pubblicazione di nuovi dati sui ceppi mutati di H5N1 era attesa, ed è arrivata. Le prime informazioni sui meccanismi evolutivi del virus dell’influenza aviaria erano state rese pubbliche su Nature all’inizio di maggio, dopo sei mesi di polemiche e riflessioni sull’opportunità di mettere a disposizione di tutti dati così sensibili (vedi Galileo, “Svelati i segreti del supervirus H5N1)”, “Supervirus aviara, gli studi saranno pubblicati. Prima o poi“). Questa settimana, Science rende noti anche i risultati di altri laboratori: in particolare quelli di Ron Fouchier dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam e di Colin Russell dell’Università di Cambridge. Il primo riguarda cinque mutazioni che permettono a H5N1 di trasmettersi per via aerea (tramite gocce di muco e saliva) tra i furetti; il secondo, invece, è sulla possibilità che questi cambiamenti genetici possano verificarsi spontaneamente in natura. Le conclusioni non escludono questo scenario, ma la probabilità che si verifichi, al momento, non può essere stimata. Per ora si sa che il virus può trasmettersi dagli uccelli agli esseri umani e solo in casi rarissimi è stato osservato un passaggio da uomo a uomo

Partiamo dal primo studio. Fouchier e colleghi hanno inizialmente modificato il virus agendo su tre aminoacidi in grado di aumentare l’affinità del patogeno per i mammiferi; poi lo hanno inoculato direttamente nel naso dei alcuni furetti. Una volta infettati gli animali, i ricercatori hanno usato dei tamponi per far passare il virus da naso a naso, al fine di studiarne l’evoluzione. Ad ogni passaggio, infatti, H5N1 veniva sequenziato. Gli scienziati hanno ritrovato le tre mutazioni introdotte insieme a molte altre sorte spontaneamente durante la trasmissione, e che sembravano migliorare la capacità del virus di replicarsi e di trasmettersi per via aerea. 

Questa caratteristica è stata testata, ponendo alcuni furetti sani accanto (ma non a contatto diretto) con quelli infetti. Sono 5 le mutazioni che la conferiscono: le tre iniziali più altre due. Quattro interessano l’emoagglutinina (Ha), una proteina di superficie che aiuta il patogeno a entrare nella cellula ospite (la stessa interessata dalle mutazioni nel precedente studio su Nature, condotto da Yoshiro Kawaoka), mentre una riguarda la polimerasi 2, l’enzima che permette la replicazione del genoma. 

La conclusione della ricerca cambia il quadro immaginato finora sulla trasmissione della malattia. Come spiegato su Science, infatti, si pensava che per scatenare una pandemia, H5N1 dovesse prima ricombinare il suo dna con quello di un altro virus dell’animale ospite. Ma l’esperimento mostra che questo passaggio non è poi fondamentale. 

Si arriva così direttamente al nocciolo della questione: quanto osservato nei due studi può accadere anche senza lo zampino dei ricercatori? La risposta sembra essere sì, dal momento che almeno due delle mutazioni che rendono il virus trasmissibile tra mammiferi attraverso gocce di aerosol sono state già individuate in numerosi ceppi presenti in natura, sia singolarmente sia insieme. Lo rivela l’analisi sui dati della sorveglianza di H5N1 condotta da Russel. Ne mancano altre tre per avere il virus ottenuto da Fouchier, o due per quello creato nel lab di Kawaoka. Il punto è: tre mutazioni (o due) sono poche o tante? In quanto tempo si accumulano?

Grazie a un modello matematico, Russel e colleghi hanno soppesato il ruolo di sei fattori che potrebbero agevolare questi cambiamenti e di tre che potrebbero ostacolarli durante un’incubazione di 5 o 14 giorni. Ma tutto ciò che può essere detto, a oggi, è che la probabilità di accumulare quelle mutazioni non è nulla. “ I risultati suggeriscono che le mutazioni restanti potrebbero evolvere all’interno di un singolo mammifero, il che trasformerebbe il virus in un serio rischio”, scrivono gli autori. 

A ogni modo, come aveva sottolineato Ilaria Capua, direttrice del dipartimento di scienze biomediche comparate dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nell’intervista a Wired.it dello scorso maggio, “non sappiamo se quei cambiamenti siano gli unici che darebbero al patogeno la possibilità di trasmettersi da uomo a uomo. Attraverso questi esperimenti si è dimostrato che H5N1 ha le marce giuste per trasformarsi da Cinquecento a Ferrari. È un rischio reale, un virus endemico in almeno sei paesi, tra cui l’Egitto, e sarebbe molto più urgente, anziché giocare con il fuoco, potenziare la sorveglianza, monitorare le mutazioni naturali in modo da approntare una risposta rapida, in caso di allarme”. 

Sulla reale utilità di questi studi e sulle precauzioni che richiedono (per esempio contro il bioterrorismo), Science pubblica ben otto articoli di accompagnamento. Per Fouchier, conoscere le mutazioni che rendono potenzialmente pericoloso il virus significa fornire degli strumenti al sistema di sorveglianza: “ Le mutazioni che noi e il team di Kawaoka abbiamo identificato collegano H5N1 ai virus pandemici del 1918, del 57, del 68 e del 2009. Queste informazioni dovrebbero essere usate nei programmi di sorveglianza, per eradicare con urgenza quei virus che le presentano”. 

Lo stop agli studi sui ceppi mutati dell’ influenza aviaria è scaduto a marzo (vedi Galileo, “La ricerca sul supervirus si ferma per 60 giorni“), quindi è probabile che ora queste indagini andranno avanti, mentre si cerca di fare un bilancio tra rischi e benefici. Ovviamente non è semplice, come sottolinea Wired.com: a parte fornire la ricetta di un virus potenzialmente cattivo a eventuali bioterroristi, l’esposizione accidentale dei ricercatori nei laboratori ad alta sicurezza è un evento abbastanza comune. E l’influenza è estremamente difficile da controllare.

via wired.it

Credit per l’immagine: Gruscana/Flickr

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