Spazio

Hawking aveva torto: i buchi neri non spiegano la materia oscura

La materia oscura, uno dei rompicapi più misteriosi della fisica moderna: dove si nasconde quell’85% della massa totale dell’Universo che i fisici non riescono proprio a trovare? Una domanda tanto urgente da incuriosire anche uno dei più famosi fisici del ‘900: Stephen Hawking, che nel 1971 propose una sua ipotesi su quale potrebbe essere la natura di questa materia misteriosa. Secondo Hawking, potrebbe trattarsi in realtà di mini-buchi neri primordiali: corpi celesti invisibili, che se presenti in numero sufficiente in tutto l’Universo potrebbero spiegare facilmente la massa mancante. Ipotesi intrigante, che però si scontra con i risultati di uno studio appena pubblicato su Nature Astronomy, in cui un team di ricerca internazionale ha provato in ogni modo a identificare i mini buchi neri di Hawking, senza alcun successo.

Qualcosa non torna

Per capire come è nata la ricerca della materia oscura, bisogna pensare a come sono fatte le galassie. Le leggi della fisica ci direbbero che le stelle più vicine al centro galattico devono compiere una rivoluzione in un tempo molto minore di quello che impiegano le stelle più periferiche, un po’ come accade nel nostro Sistema Solare, dove Mercurio impiega appena 88 giorni per un giro completo attorno al Sole, mentre per Nettuno la stessa operazione richiede 165 anni. Bene, in molte galassie invece si osserva qualcosa di completamente diverso: le stelle più centrali e le più periferiche impiegano presso a poco lo stesso tempo per compiere una rivoluzione. Come è possibile? Qualcosa evidentemente agisce sulla traiettoria delle stelle periferiche, aumentandone la velocità. Ovviamente, questo qualcosa è proprio la materia oscura.

Buchi neri primordiali

Sulla natura di questa materia oscura esistono moltissime ipotesi, e per ora, ben poche certezze. Quella di Hawking comunque è una delle proposte più suggestive, e si basa sul lavoro di due fisici russi, Yakov Borisovich Zel’dovich e Igor Dmitriyevich Novikov, secondo cui nei primissimi istanti seguiti al Big Bang l’enorme pressione a cui era sottoposta la materia in espansione potrebbe aver dato alla luce dei mini buchi neri, che i due decisero di battezzare “buchi neri primordiali”. Partendo da questa scoperta, nel 1971 Hawking calcolò la possibile massa di questi piccoli buchi neri, e propose che un numero sufficientemente alto di simili corpi celesti, ognuno con una massa inferiore a quella nostra Luna, e posti ai confini delle galassie potrebbero spiegare le anomalie gravitazionali che hanno fatto postulare l’esistenza della materia oscura.

Purtroppo di buchi neri primordiali non c’è traccia

Il problema, è capire come osservarne uno. Come tutti i buchi neri sono invisibili (neanche la luce d’altronde può sfuggire alla loro attrazione gravitazionale), ma essendo dotati di massa, in teoria è possibile intuirne la presenza attraverso un fenomeno definito lente gravitazionale: se al momento dell’osservazione di un corpo luminoso e massivo come una stella un altro corpo celeste si viene a trovare in mezzo, la luce proveniente dalla stella risulterà distorta dagli effetti gravitazionali dell’intruso. Sperare di guardare una stella proprio nel momento in cui un buco nero primordiale ci passa davanti è piuttosto inverosimile. Ma aumentando il numero di stelle, aumenta anche la probabilità di riuscita. Per questo motivo, gli autori del nuovo studio hanno deciso di osservare l’intera galassia di Andromeda per un’intera notte, scattando 190 immagini delle stelle che la compongono. E i risultati, purtroppo, non sono stati quelli sperati. “Se l’Universo fosse pieno dei piccoli buchi neri postulati da Hawking avremmo dovuto osservare almeno un migliaia di effetti lente gravitazionale”, spiega Anupreeta More, coautrice dello studio. “Dalle nostre osservazioni invece è emerso al più un singolo possibile evento”. E questo – conclude la ricercatrice – vuol dire che, purtroppo, la teoria di Hawking non può che essere scorretta.

Alessandro Di Bitonto

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