A livello mondiale sono circa 37 milioni le persone che convivono con l’hiv. Due milioni i nuovi casi registrati nel 2014 (dati Who). L’Italia, nel panorama globale, mantiene il tasso delle nuove infezioni stabile: 3695 sono state le nuove diagnosi (dati dell’Istituto superiore di sanità).
Ma lo sguardo cambia se dall’Italia passiamo all’Europa. Il 2014 è stato l’anno nero nella zona europea per l’hiv. Nello scorso anno, infatti, le nuove diagnosi hanno raggiunto quota 142mila nella regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il valore più alto in un anno da quando sono cominciati i monitoraggi, negli anni Ottanta (dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, Ecdc).
Se si guarda ai paesi dell’Unione europea le cose sembrano andare meglio, ma solo a un primo sguardo: se alcuni paesi negli ultimi dieci anni hanno diminuito i tassi di nuove infezioni del 25%, in altri i casi sono raddoppiati, tanto che nel complesso l’epidemia di hiv è rimasta immutata.
E immutata in dieci anni significa che di passi avanti non ne sono stati fatti molti. O meglio: non quanti auspicati.
Entrando nel merito delle modalità di trasmissione del virus si scopre che, se mentre a livello della regione europea dell’Oms la trasmissione eterosessuale è la principale responsabile dell’aumento della diffusione del virus (così come in Italia), il principale modo di trasmissione dell’infezione nella zona Ue è il sesso tra uomini.
“Le diagnosi di hiv tra gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini sono aumentate a un ritmo allarmante, dal 30% del 2005 al 42% nel 2014 in quasi tutti i paesi dell’Ue”, ha sottolineatoAndrea Ammon, acting director dell’Ecdc: “Per questo, l’Europa deve aumentare i propri sforzi per raggiungere questo gruppo, attraverso strategie che includano l’accesso ai trattamenti per i cittadini dell’Unione che risiedono in altri paesi europei o attraverso la profilassi pre-esposizione [anche detta PrEP, nda]”.
Perché gli studi che dimostrano l’efficacia della pillola che può prevenire l’infezione, anche nel mondo reale, fuori dai setting tipici della ricerca, ci sono. Ma sulle reali opportunità, efficacia e rischi di utilizzare la profilassi pre-esposizione rimangono aperte diverse problematiche, come ha spiegato a Wired.it Massimo Andreoni, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive Policlinico Tor Vergata. Prima di capire quali riassumiamo brevemente cosa si intende per PrEP (qui un utile riassunto del Cdc).
La profilassi pre-esposizione è un metodo per ridurre il rischio di infezioni da hiv nei sieronegativi che hanno un alto rischio di esposizione al virus. Profilassi da compiersi attraverso l’assunzione (possibilmente giornaliera) di antiretrovirali per via orale (attraverso la pillola commercialmente distribuita col nome di Truvada, una combinazione di emtricitabina e tenofovir).
La PrEP, infatti, funziona quando presa, ovvero il livello di protezione offerto dipende dall’aderenza alla terapia. Anche gli ultimi dati, relativi all’efficacia del farmaco al di fuori dei contesti di ricerca, mostrano che in effetti il farmaco, se preso almeno quattro volte la settimana, funziona. Protegge dall’hiv. E allora perché non metterlo in campo come strategia aggiuntiva (non alternativa) nella lotta al virus?
Gli Usa lo hanno fatto dal 2012, da quando l’Fda, l’agenzia per la sicurezza alimentare e dei farmaci statunitensi, lo ha approvato anche per uso profilattico e non solo nel trattamento delle infezioni da Hiv. In Europa il farmaco è utilizzato nel trattamento delle persone sieropositive, ma qualcosa sta cambiano e le richieste che cambi si starebbero facendo sempre più forti. Anche per scongiurare utilizzi inopportuni e informali.
Solo pochi giorni fa è arrivata la notizia che la Francia ha autorizzato Truvada come trattamento preventivo contro l’Hiv (attraverso una recommandation temporaire d’utilisation, Rtu) per le categorie più a rischio di esposizione al virus, come gli omosessuali maschi. “In Italia”, commenta Andreoni: “abbiamo una situazione epidemiologica non così lontana da quella francese, e l’aumento delle diagnosi di infezione nei maschi che fanno sesso con maschi (MSM) nell’ultimo anno, suggerirebbe al paese di mettere in campo la stessa strategia della Francia, ovvero di usare la PrEP come strategia aggiuntiva per ridurre i casi di nuove infezioni nella popolazione a più alto rischio”.
Che non sarebbe solo quella dei maschi che fanno sesso con maschi, ma anche degli eterosessuali che hanno frequentemente rapporti non protetti e delle coppie sierodiscordanti (in cui sono uno dei due è sieropositivo). “Va ribadito, perché non è scontato, che il trattamento farmacologico profilattico non sostituisce il preservativo, che rimane il miglior strumento di prevenzione contro le infezioni sessualmente trasmesse”, continua Andreoni.
“Ma dobbiamo riconoscere che una fetta della popolazione comunque non lo usa e allora la presenza di un ulteriore strumento preventivo potrebbe aiutare a ridurre il rischio di infezione, anche considerato che il costo delle infezioni, in termini di salute e assistenza sanitaria, è molto alto. Puntare sulla profilassi farmacologica sarebbe auspicabile”.
Come non è chiarissimo. L’idea è che le persone che si ritengono ad alto rischio di contagio (è così semplice stabilirlo, vien da chiedersi?) si rivolgano allo specialista di riferimento, l’infettivologo, chiedendo l’assunzione della pillola. Pillola che in Italia oggi, ricorda Andreoni, è prescritta solo alle persone sieropositive e in rari casi come profilassi post-esposizione (gli antiretrovirali funzionano come profilassi anche se assunti poco dopo l’esposizione, e secondo gli ultimi studi anche “al bisogno”,assunto cioè in prossimità dei rapporti sessuali).
Ma post-esposizione non significa avere un rapporto a rischio e poi rivolgersi all’infettivologo: “La prescrizione come profilassi post-esposizione si riserva oggi agli operatori sanitari per esempio o a chi ha subito, in rarissimi casi, violenza sessuale”,precisa il medico.
L’eventuale estensione di indicazione all’utilizzo però significherebbe affrontare e risolvere diversi problemi. A cominciare dai costi. Trenta compresse di antiretrovirale (pari alla copertura di un mese) costano 500 euro: “Si tratta di un costo elevato, sia per il singolo individuo che per il sistema sanitario. Il preservativo è ovviamente molto meno costoso a parità di efficacia”. Ma non c’è solo questo problema: “L’utilizzo sul lungo termine di Truvada ha effetti collaterali importanti, soprattutto per tossicità a livello renale e osseo”, aggiunge il ricercatore.
Non da ultimo il problema di Truvada è di tipo concettuale: autorizzando l’assunzione di una pillola a scopo profilattico non c’è il rischio di aumentare i comportamenti a rischio, come i rapporti non protetti? E magari di aumentare anche la diffusione di altre malattie sessualmente trasmissibili? Il problema c’è, chiarisce Andreoni, seppure con qualche precisazione: “Dobbiamo riconoscere, e i numeri e lo dimostrano, che oggi siamo comunque davanti a un abbassamento della percezione del rischio, dovuta anche all’idea che convivere con l’Hiv è possibile. La pillola potrebbe abbassare ulteriormente questa sensazione, ma gli studi ci dicono in realtà che questo non è accaduto poi così tanto. Se la PrEP arrivasse anche da noi avremmo comunque uno strumento in più per scongiurare i contagi”.