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“I poveri non esistono”

di
Andrea Capocci

Hernando de Soto
Il Mistero del Capitale
Garzanti, 2001
pp. 277, euro 18,08

Cinquecento anni fa Hernando de Soto, preti e soldati al seguito, esplorava il Nordamerica per colonizzarlo in nome dei re di Spagna. Né la Buona Novella né le cattive maniere bastarono a convincere gli indios: Hernando ci rimise le penne, e i superstiti della spedizione ripararono in Messico. Conquistador fallito, De Soto gode oggi di una discreta fama di esploratore e martire del Cristianesimo. Le tribù del Mississippi lo credevano immortale e non ne rinvennero mai il corpo, buttato nel fiume dagli spagnoli prima di darsela a gambe. Non si stupirebbero dunque alla notizia che un Hernando De Soto, economista di chiara fama, torna a predicare in terra di indios. Il Vangelo di oggi è il capitalismo: come convertirvi i poveri del mondo? Come portarli sulla Retta Via, lontano dal Sentiero Luminoso?Sbalordendo: i poveri non esistono, sostiene De Soto nel suo libro. Basta esplorare le periferie di Città del Messico, Il Cairo o Manila per ammirarne le ricchezze: casupole abusive, attività commerciali sommerse, coltivazioni illegali che non figurano nelle statistiche, ma producono più degli aiuti internazionali o degli interventi statali. A Haiti, il paese più povero dell’America latina, i beni patrimoniali detenuti dai poveri è 150 volte più grande di tutto l’investimento diretto estero ricevuto a partire dall’indipendenza dalla Francia nel 1804, per esempio, secondo il censimento svolto da De Soto.Non si tratta dunque di poveri. Il fatto è che tali ricchezze non possono diventare “capitale” finché non sono regolati da contratti di scambio e tutelati dal diritto e dalla polizia. Rimangono allo stadio di un’economia di sussistenza, nonostante vi siano tutti i presupposti per un vero sviluppo capitalistico.

Queste attività non possono essere scambiate, vendute o migliorate con investimenti produttivi perché la proprietà privata non è sacra come da noi: laggiù, prosperano furto, evasione fiscale e contrabbando. Ispirato da Adam Smith, prima che Marx, De Soto ci ricorda che il capitalismo non è solo soldi, terre, lavoro (altrui): è la proprietà privata su questi beni a scatenare il meccanismo. La proprietà genera l’accumulazione, il valore-prezzo, lo sviluppo. Chi investirebbe laddove essa non è garantita? Dunque, conclude l’autore, occorre legalizzare l’economia informale proteggendo la proprietà privata con leggi efficaci, accompagnando alla luce il brulicare senza schiacciare le formiche. Occorre semplificare la burocrazia e censire le attività, in modo da facilitare l’accesso al mercato e al consumo di un numero crescente di “finti” poveri.D’altro canto, il Terzo Mondo si trova oggi nelle stesse condizioni del Primo di qualche secolo fa. Quindi sarebbe in grado di imboccare la stessa strada, se solo fosse ben consigliato. Il Primo Mondo stesso, purtroppo per De Soto, smentisce l’efficacia delle sue ricette. Anche in Europa i governi hanno liberalizzato, detassato, sgravato l’industria per “portare a galla il sommerso”. Ma dagli anni Ottanta, la porzione di lavoro nero è cresciuta dal 5 al 15 per cento in Europa, e dal 15 al 25 per cento in Italia, di oggi. Non sfiora De Soto l’idea che il sottosviluppo del Sud dipenda dalla tracotanza del Nord: essere contadini oggi, per conto di bananieri americani e narcotrafficanti colombiani, non è la stessa cosa che tre secoli fa in Toscana o in Provenza; e nei paesi poveri prosperino oligarchie obese da Primo Mondo, fondate sulla svendita ai Settentrionali. E il discorso si può ribaltare sull’altro lato dell’Equatore: quanto è stato endogeno il nostro sviluppo basato sul petrolio arabo, sul legname amazzonico, sulla manodopera asiatica? Potrebbe il Sud imitare il nostro modello di sviluppo, senza un pianeta da razziare? O la sua emancipazione forse passa per un’altra idea di sviluppo, antagonista al nostro? Che l’esperienza del suo pio omonimo illumini De Soto.

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