Il lobo che fa la differenza

Cosa ha permesso lo straordinario sviluppo delle strutture cerebrali che distingue l’Homo sapiens dalle forme umane che lo hanno preceduto? La conformazione dei lobi parietali. Una prima risposta a una delle domande centrali della paleontologia arriva da una ricerca condotta all’Università “La Sapienza” di Roma da Emiliano Bruner, Giorgio Manzi e Juan Luis Arsuaga e pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Science. Con l’aiuto del computer, i ricercatori hanno analizzato, nei reperti fossili, la conformazione dell’endocranio (la parte interna del cranio) usandolo come un “negativo” del cervello che doveva contenere. Effettuare uno studio di questo tipo sui crani fossili è tutt’altro che facile. “Prima di tutto serve un cranio intero, e non sono molti quelli disponibili. Poi occorre fare un calco della cavità endocraniale, ed estrarlo senza danneggiare il reperto”. Fino a non molti anni fa, solo da pochi fossili si riusciva a ottenere un calco utile per questo tipo di analisi. Ma a Bruner e colleghi è venuta in aiuto la tecnologia della tomografia assiale computerizzata (Tac). Questa tecnica, ampiamente utilizzata anche nella diagnostica medica, permette di proiettare un fascio radioattivo sul cranio fossile e ottenere, analizzando al computer immagini ottenute da punti di vista diversi, un dettagliato modello tridimensionale dell’endocranio. Questo, insieme a significativi ritrovamenti avvenuti negli ultimi anni, ha permesso ai ricercatori di Roma di disporre di un campione di reperti sufficiente.La ricerca ha riguardato tre gruppi di fossili, appartenenti rispettivamente a esseri umani moderni, a uomini di Neandertal e a individui più arcaici, non riconducibili a nessuno dei due gruppi. Bruner e colleghi si sono concentrati sulla analisi allometrica, ovvero del rapporto che lega le dimensioni dell’endocranio alla sua forma. “Ogni struttura biologica è regolata da un preciso equilibrio tra taglia e forma”, spiega Bruner “per cui all’aumentare della prima la seconda non rimane la stessa, ma si modifica secondo un determinato modello”. È proprio quel modello a cambiare nei diversi gruppi di fossili. Più nel dettaglio, i Neandertal sembrano una versione “scalata” delle forme più arcaiche. Avevano un encefalo molto più sviluppato, grazie a un allargamento dei lobi frontali e a un generale sviluppo verticale, ma presentavano anche uno schiacciamento e accorciamento delle aree parietali, in corrispondenza cioè della parte superiore posteriore della calotta cranica; questa conformazione strutturale apparentemente ostacolava un ulteriore aumento del volume cerebrale. Uno “stress ontogenetico”, come lo definiscono i ricercatori: in pratica, i Neandertal usavano un “vecchio” modello strutturale che poneva loro dei limiti a un ulteriore aumento di dimensioni, visibile in particolare nelle aree parietali. Il modello caratteristico dell’Homo sapiens mostra invece un marcato sviluppo parietale, che si associa a una ristrutturazione dell’intera morfologia cerebrale. Ma in che modo questa diversa conformazione dell’endocranio avrebbe permesso lo sviluppo di nuove capacità cognitive? “Qui entriamo nel campo delle supposizioni”, avverte Bruner. “Però è un fatto che le aree parietali sono state già chiamate in causa per spiegare la comparsa dei primi ominidi. Sono le aree del cervello in cui avviene l’integrazione di tutti gli impulsi visivo-spaziali, quella funzione che ci permette, sulla base delle percezioni, di crearci rappresentazioni interne della realtà circostante”. Una funzione critica per molte attività, quindi, sia di tipo pratico che sociale. Il problema è che non possiamo essere sicuri che questo valesse anche per i Neandertaliani. “L’associazione dedotta da popolazioni moderne tra una struttura cerebrale e una funzione”, avverte Bruner, “non è necessariamente valida anche per le forme estinte”.

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