Il lubrificante dei terremoti

Le immagini drammatiche dello tsunami che ha colpito l’isola di Sumatra e le coste del sud-est asiatico poco più di anno fa sono ancora stampate nella mente a ricordare la portata devastante che può avere un terremoto in superficie. Se gli effetti delle vibrazioni sismiche sulle attività umane sono tristemente noti, poco si sa, invece, di quanto avviene in profondità, quando improvvisamente e imprevedibilmente una faglia si rompe ed enormi blocchi di roccia iniziano a scivolare l’uno contro l’altro provocando onde che si propagano anche per migliaia di chilometri. Per ovvi motivi, è quasi impossibile studiare la meccanica di un terremoto che origina a 10-15 chilometri sotto terra. A meno che non si risolva il problema studiando faglie esposte in superfie: finestre della crosta terrestre che consentono di gettare uno sguardo su processi altrimenti nascosti. Ed è quanto ha fatto un gruppo di ricercatori italiani e giapponesi, che questa settimana firmano un articolo su Science.Il laboratorio naturale è stato offerto dal massiccio dell’Adamello, nelle Alpi trentine, dove lo scioglimento di un ghiacciaio ha lasciato affiorare rocce di 30 milioni di anni fa, che al tempo si trovavano in profondità. “È possibile camminare sopra la faglia, perfettamente levigata, per circa un chilometri”, racconta Giulio di Toro, ricercatore del Dipartimento di geologia, paleontologia e geofisica dell’Università di Padova e principale autore dello studio. Che cosa c’è dentro il motore, ormai spento, dei terremoti? “Il calore di attrito che si sprigiona nello sfregamento fra le rocce durante un sisma può arrivare a fonderle. È esattamente quello che succede nel pattinaggio su ghiaccio, in cui si forma un sottile strato di d’acqua interposto tra la lama del pattino e la superficie del ghiaccio”, spiega di Toro. Il fuso roccioso è stato motivo di dibattito tra gli scienziati, perché, a differenza dell’acqua, è estremamente viscoso ed è sottoposto a pressioni elevatissime, di circa 2.000 atmosfere. Secondo alcuni, pertanto, la formazione del fuso, anziché lubrificare le rocce, avrebbe un effetto frenante del terremoto. Tanto da arrivare a definirlo come la cicatrice di un terremoto abortito. “L’osservazione delle psedotachiliti, rocce vetrose prodotte dalla solidificazione del fuso, presenti sulla faglia dell’Adamello ci indica invece il contrario. Le stime sul terreno ci hanno permesso di calcolare la forza di attrito sul piano di faglia. Ma la prova del nove è stata l’esperimento riprodotto in laboratorio”.Grazie a un macchinario unico al mondo, che si trova in Giappone, paese all’avanguardia nelle ricerche sismologiche, Di Toro, insieme ai colleghi dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) di Roma e dell’Università di Kyoto, ha simulato la frizione tra le rocce, facendole ruotare l’una contro l’altra alla velocità di slittamento tipica di un terremoto, calcolata intorno al metro al secondo. “Il coefficiente di attrito del fuso che abbiamo ottenuto è circa 0,1, molto più basso di quello delle rocce, che è circa 0,8. Abbiamo così scoperto che il fuso ha un’azione lubrificante che consente alla faglia di scivolare di più e accelerare, anziché smorzare la propoagazione della rottura”.La scoperta, che dà una possibile interpretazione di numerose osservazioni sismologiche, fa luce su processi profondi e (fortunatamente) episodici che, a tutt’oggi, nessuno è in grado di evitare o prevedere. “È necessario continuare a fare ricerca. L’Italia, che è un paese a forte rischio sismico, potrebbe contare, prossimamente, su strumentazioni d’avanguardia, al pari di quelle giapponesi, con la realizzazione del Laboratorio alte pressioni e alte temperature di geofisica e vulcanologia sperimentali presso l’Ingv”, si augura il ricercatore. Sempre fondi permettendo.

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