Il mercato delle idee

Occorre innanzitutto premettere che il termine sviluppo è per certi versi ambiguo: può avere molti significati, anche se ha quasi invariabilmente un contenuto implicito progressivo. Vedremo in seguito se e in quali casi è possibile parlare di sviluppo in relazione alla crescita della conoscenza, e in particolare di quella scientifica. A mio avviso, la cosa principale da osservare è che la crescita della conoscenza è un processo di tipo evolutivo. Anzi, vorrei sottolineare che la grande svolta epistemologica della seconda metà di questo secolo è stata la riscoperta e l’estensione delle idee di Darwin, fino a renderle un nuovo modo di vedere il mondo. Per questo motivo, si può dire che tutto segua un andamento evolutivo: l’Universo, la vita sulla Terra, le società umane. Tutto è evoluzione, compreso il processo di apprendimento, ovvero di crescita della conoscenza individuale e collettiva.

Dunque anche lo sviluppo della scienza è un processo di tipo evolutivo?

La conoscenza scientifica, come tutti i modo di apprendimento, individuali e collettivi, procede per differenziazione e selezione. In una popolazione biologica, la differenziazione si produce attraverso mutazioni genetiche, che producono una molteplicità di fenotipi, tra cui quelli più adatti all’ambiente si riproducono ad un tasso differenziale maggiore: quindi c’è un processo di selezione da parte dell’ambiente e un continuo un processo di differenziazione degli individui di una certa popolazione all’interno di una specie. Questo è il meccanismo darwiniano fondamentale, che è alla base delle diverse teorie evolutive. Anche la crescita della conoscenza, e della conoscenza scientifica, procede per differenziazione e selezione. E anche qui la selezione è prodotta dall’ambiente: le idee più “utili”, quelle che permettono di fornire anche al di fuori del terreno della scienza o che permettono di sviluppare ulteriormente le conoscenze in una direzione piuttosto che in un’altra, hanno la meglio sulle altre.

Quindi, le idee nella scienza vengono selezionate in base all’ambiente sociale?

Non c’è dubbio che uno dei fattori di selezione che diventa sempre più incisivo è rappresentato dagli interessi economici, ovvero dal mercato. Nella società capitalistica, governata dalla legge del mercato, tutto si trasforma in merce, e questo vale per qualsiasi cosa abbia un valore d’uso, materiale o immateriale. Ma in una società di mercato anche i risultati della conoscenza scientifica vengono immediatamente trasformati in merce, e quindi il processo di selezione delle idee, delle conoscenze, dei risultati è sempre più demandato alle leggi che governano il mercato, ovvero alla domanda e l’offerta. Questo a mio avviso è molto grave, soprattutto per quanto riguarda le scienze della vita. Un esempio sotto gli occhi di tutti: le possibilità aperte dalle biotecnologie, dalla creazione di nuove specie al trasferimento di geni da una specie all’altra, vengono prodotte in vista di un’utilizzazione pratica, e quindi traducibile in denaro. Il risultato di queste ricerche è che vengono selezionati alcuni particolari ceppi o specie, e che tutti gli altri vengono abbandonati. Un processo involutivo, direi, se consideriamo che l’evoluzione biologica sulla Terra, per tre miliardi di anni, è stata prodotta da meccanismi di selezione da parte di un ambiente estremamente differenziato. La moltiplicazione delle forme di vita è stata infatti il risultato di un processo di differenziazione estremamente spinto, dettato soprattutto dal fatto, di solito trascurato, che tutti i rifiuti di una specie diventano alimento per un’altra specie, in un’enorme catena circolare intrecciata in cui niente è scartato e tutto viene riutilizzato. Così si è prodotta la differenziazione: appena c’è un rifiuto disponibile, nasce la forma di vita appropriata per utilizzare quel rifiuto come alimento. Questo meccanismo ha prodotto la biodiversità: oggi abbiamo cominciato il cammino opposto.

Il mercato come unico fattore selettivo è dunque il peggior nemico della crescita della conoscenza?

Non c’è dubbio: se da un lato c’è una moltiplicazione delle conoscenze, un’esplosione di nuova informazione, la selezione di questa nuova informazione fondata su un unico meccanismo produrrà trasformazioni radicali, a mio parere devastanti, nella struttura del mondo. Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare: questo tipo di estensione della conoscenza scientifica, nonostante l’ottimismo degli scienziati interessati a commercializzare i risultati delle loro ricerche, può avere effetti secondari totalmente imprevedibili. Gli scienziati sono un po’ faustiani: pensano di poter prendere solo il lato buono delle cose senza subirne i risvolti negativi. Invece non ci sono benefici gratis, e l’altra faccia della medaglia prima o poi si manifesta. Il problema è che questi risvolti non sono controllabili, perché gli ecosistemi sono sistemi estremamente complessi, con innumerevoli retroazioni, e dunque l’idea di poter controllare tutto è pura pazzia. Quello che la scienza può fare, e che fa con sempre maggiore abilità, è controllare una corta catena lineare di cause e effetti: progettare una cosa per ottenere un determinato scopo immediato. In questo sta lo sviluppo della scienza: la possibilità di porsi un obiettivo a breve scadenza e individuare un modo per raggiungere quello scopo. Ma nessuno è in grado di prevedere quello che succederà dopo. Anche solo dal punto di vista statistico, è pazzesco non pensare che ci potranno essere eventi catastrofici. Anzi, la possibilità che effetti assolutamente imprevedibili possano produrre catastrofi è quasi certa: paradossalmente, quanto più riusciamo a controllare e dominare un ambito ristretto per ottenere un certo risultato a breve scadenza, tanto più l’imprevedibile si moltiplica. Inoltre, un effetto benefico per una certo luogo e per un certo gruppo di persone può diventare un disastro in un altro luogo e per altre persone, altri strati sociali, o altri paesi. Questo è quello che già abbiamo sotto gli occhi.

E allora, che fare?

Fino a quando il mercato domina tutto è molto difficile trovare soluzioni: se gli scienziati pensano non solo di poter far tutto, ma anche di essere dei benefattori dell’umanità, anche la loro deontologia professionale non potrà cambiare. E si entra in un giro vizioso: anche i politici naturalmente inseguono l’immediato, perché hanno bisogno del consenso, e l’opinione pubblica, ovvero noi tutti, siamo più contenti se abbiamo a disposizione rimedi a breve termine per il problema che in quel momento ci assilla. La possibile via d’uscita è quella di generare dei cambiamenti nei comportamenti collettivi, fosse anche in conseguenza di eventuali effetti catastrofici. Introdurre regole, per cui “certe cose non si fanno”, perché altrimenti possono succedere dei disastri. Dunque introdurre una morale.

Se il meccanismo dell’apprendimento e della crescita della conoscenza è quello l’evoluzione biologica, in cosa si differenzia teoricamente il suo ragionamento da quello del darwinismo sociale?

Ci può essere effettivamente una certa ambiguità nell’affermare che tutto è evoluzione, perché si può arrivare a giustificare l’idea che i migliori hanno diritto alla sopravvivenza e che i più deboli devono soccombere. In natura questo è vero: le specie naturali si mangiano l’una con l’altra, ognuno si difende come può, aggredisce come può, sopravvive come può. Il darwinismo sociale assume questa realtà come una necessità e una legge ineluttabile della natura, e teorizza che anche l’essere umano debba necessariamente comportarsi in questo modo: ognuno mangia l’altro, il debole soccombe, e via dicendo. Ma il fatto è che noi esseri umani, poiché siamo dotati di ragione, di coscienza, di sentimenti, e siamo capaci di distinguere tra bene e male, possiamo sfuggire alla legge della natura. Infatti siamo in grado di introdurre il fattore etico, come dicevo precedentemente.

Voglio però ribadire che, riferendomi al processo di apprendimento come ad un processo evolutivo, intendo parlare esclusivamente del meccanismo fondamentale dell’evoluzione: quello della differenziazione e della selezione. Partiamo dal secondo: se la selezione è fatta sulla base di principi “etici” , per esempio principi di uguaglianza, il diritto di ognuno ad avere una propria vita, o quella che gli americani chiamano la golden rule, cioè non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, si ha una vita decente. Se la selezione viene fatta utilizzando sostanzialmente lo stesso meccanismo che c’è in natura, dove la funzione di ottimizzazione è quella del profitto, del mercato, dell’interesse immediato individuale, allora prevale il darwinismo sociale. Ma questo è il risultato dell’avere espulso completamente l’etica dal meccanismo selettivo. In questo modo, si riproduce quello che succede nel processo evolutivo in natura: i deboli soccombono e i forti sopravvivono. E la scienza, nel momento in cui espelle l’etica e persegue il principio della sopravvivenza immediata, contribuisce ad andare in questa direzione. Con l’ulteriore danno di non produrre più diversità. In questo modo, il meccanismo naturale viene riprodotto solo parzialmente, perché manca la moltiplicazione della diversità che deriva dai meccanismi selettivi operati dalle diverse circostanze ambientali. Ma se il processo selettivo si riduce ad un unico fattore, alla fine non potrà portare che all’autodistruzione.

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