Il silenzio della Cina

All’annuncio ufficiale dell’identificazione del virus responsabile dell’epidemia molti avranno tirato un sospiro di sollievo. È infatti questo il primo dato sicuro in una situazione per il resto dominata dall’incertezza: sulle modalità di trasmissione del patogeno come sulle reali dimensioni del contagio nell’area dalla quale si è propagato, la Cina continentale, dove, hanno denunciato ieri gli esperti inviati dall’Organizzazione mondiale della Sanità, i casi sarebbero ben maggiori di quanto ammesso dalle autorità locali. Al di là dei successi scientifici, dunque, la situazione rimane preoccupante, oltre che in Cina nella regione autonoma che dal 1997 ne fa parte, Hong Kong, dove il virus ha colpito anche persone giovani e in buona salute. Nell’ex colonia britannica la psicosi da contagio è chiaramente visibile per le strade, dove la gente continua a indossare mascherine protettive. Da due settimane le scuole sono chiuse e ancora non si sa quando riapriranno. Il turismo e il commercio internazionale, le risorse economiche principali della regione, stanno accusando i primi effetti dell’epidemia, tanto che secondo alcune fonti la Cathay, la compagnia aerea del paese, ha subito un calo dell’80 per cento nelle prenotazioni e sarebbe sull’orlo della bancarotta. E la disoccupazione nel paese ammonterebbe all’8 per cento dopo che molte imprese e negozi hanno avviato migliaia di licenziamenti. In Cina, invece, nulla sembra cambiato: a Canton, per esempio, la gente circola normalmente, i ristoranti sono affollati come sempre e le scuole non hanno mai chiuso i battenti. Il fatto è che a Hong Kong continua a esistere una stampa relativamente libera: qui le informazioni sulla Sars sono circolate con prontezza e le autorità hanno interagito da subito con il sistema sanitario internazionale. Tutt’altra storia nell’immensa area continentale, dove il silenzio sull’epidemia è stato pressoché assoluto. Errore di valutazione o ragion di stato, fatto sta che una prima epidemia di polmonite anomala verificatasi a novembre nella città industriale di Foshan, provincia industrializzata di Guangdong, è stata più o meno taciuta dalle autorità cinesi. Che solo a febbraio, quando la Sars è esplosa anche nelle vicine Canton e Hong Kong ha iniziato a cambiare atteggiamento. È evidente che se l’allarme fosse stato lanciato prima molti casi di contagio si sarebbero evitati. La Cina ha poi aspettato il 26 marzo per aderire ai sistemi internazionali di sorveglianza e allerta per le malattie infettive. E c’è voluta una settimana di pressioni prima che gli di esperti dell’Oms riuscissero a visitare un ospedale militare dove alcune voci segnalavano la presenza di siano almeno 50 casi di Sars mai dichiarati dal governo. Due giorni prima, il 14 aprile, il presidente cinese Hu Jintao in una dichiarazione televisiva aveva finalmente ammesso che la situazione nel paese è critica: oltre 1.400 casi e 64 morti, secondo i dati ufficiali. Ma secondo l’Oms sarebbero molti di più: nella sola Pechino tra i 100 e i 200 a fronte dei 40 (con 4 vittime) dichiarati ufficialmente. A parte l’omertà governativa, le stime sulla diffusione dell’epidemia potrebbero essere falsate anche da altri fattori, per esempio, la tendenza tra le fasce più deboli della società cinese a curarsi da sé. Come pochi forse sanno in Occidente, da alcuni anni la Cina ha scelto di privatizzare in modo radicale il proprio sistema sanitario, tanto che secondo l’Oms il 63,4 per cento del totale della spesa sanitaria nel paese è affidato al sistema privato (negli Usa è il 55,7 per cento). E così la quasi totalità delle spese mediche deve essere pagata in proprio dai pazienti. Non esistono piani di previdenza personali o aziendali. Questo che fa sì che molti cittadini, soprattutto gli anziani e gli strati più poveri della popolazione, rinuncino ad andare negli ospedali e preferiscano automedicarsi e, in qualche caso, perfino morire in casa per non pesare sui bilanci familiari. Inoltre, se a Guandong e a Pechino il sistema sanitario è molto efficiente, altre province del sub-continente sono più arretrate, come lo Shanxi e la Mongolia Interna.Ma rimane senz’altro la censura governativa la principale causa della diffusione non solo della Sars ma anche dell’Hiv/Aids, per la quale non si dispone ancora di dati completi, come di altre malattie. Censura che, tra l’altro, non riguarda solo i mezzi di comunicazione popolari ma si estende anche alla letteratura scientifica. Il prezzo in termini di vite umane di questo silenzio può essere molto alto, come dimostra l’epidemia mondiale di Sars. Che poi è l’esempio più visibile, soprattutto in Occidente, del disastro sanitario causato dalla restrizione delle libertà civili e dall’assenza di democrazia.

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