Insegnate la probabilità: il mondo è dominato dal caso

    Se offrite a un bambino un pesciolino che sta in una vasca di pesciolini tutti bianchi, meno uno che è rosso, lui vorrà il rosso: c’è un motivo per scegliere proprio quello. Ma se fossero tutti ugualmente bianchi, lui dovrà sceglierne uno a caso: eppure, dentro di sé penserà che quello è diverso, è il suo pesciolino. È quello che accade quando si gioca d’azzardo: anche i giocatori più incalliti sceglieranno gli esiti a caso, pensando però di avere fatto una scelta “fortunata”, che ha qualcosa in più per essere vincente. La celebre smorfia napoletana è costruita per suggerire un legame occulto tra numeri e eventi occasionali; 47 “morto che parla”, 90 “la paura”, eccetera (per chi sogna il nonno defunto, o per chi ha scampato un pericolo); eccetera. Il libro della Smorfia si vende e bene, la smorfia fa soldi e rende…

    Ma alcune fortune sono motivate in modo meno popolare: se pescando a caso in una miniera di eventi casuali distinguibili ma fisicamente identici (gettoni numerati, p.es.) che vengono rimescolati nella miniera ad ogni estrazione, un certo gettone non esce, bé, è un “numero ritardato” e, molti pensano, la probabilità che esca la prossima volta aumenta nel tempo. Se non fosse ugualmente probabile, a ogni estrazione, che uscisse uno qualsiasi dei gettoni, il gioco sarebbe “truccato”, non equo, ingiusto. E noi vogliamo che i giocatori siano invece tutti nella stessa condizione (probabilità di successo). Questo, per la maggior parte della gente e specie per chi scommette non può essere vero: la parola “fortuna” non può essere un’invenzione gratuita. Dunque, chi vince è fortunato oltreché vincente: vince per una sua dote nascosta, “non per caso”: ma pregressa.

    Questa lunga premessa esemplifica una difficoltà psicologica diffusa di accettare il caso come fonte della realtà. Perché la scuola se ne interessa così poco? Perché non si introducono le basi della teoria delle probabilità? Perché si tollera il gioco d’azzardo, che manda tanta gente in rovina? Un motivo c’è, ed è che, specie agli insegnanti, la matematica delle probabilità appare, non di rado, come una tecnica di valutazioni soggettive, che ci riporta a considerare la fortuna e la sfortuna all’interno del pensiero razionale, di quel pensiero che vorrebbe essere “capace di previsioni certe”, deterministiche, calcolabili, in presenza di fenomeni spesso comunissimi. Ciascuno è libero di credere ciò che vuole: è una delle libertà più difese a questo mondo. Il “calcolo delle probabilità” e la nozione di “caso” sembrano negare questa libertà che, perciò, incontra difficoltà di ordine psicologico. Pertanto, bisogna cercarne una base razionale nel pensiero induttivo e nella raccolta di dati statistici.

    Molti mi hanno messo in guardia: se, sperimentando, ci si imbatte in un caso eccezionale tuttavia di probabilità non nulla, quel caso verrà usato come prova della fallacia delle previsioni statistiche. A tutti noi è certamente capitato di essere “confutati” da un risultato eccezionale: dovremmo riflettere sull’enorme numero di casi non eccezionali che ci capitano nella vita e renderci conto che “raramente” non vuol dire “mai”. Insisto perciò sull’importanza didattica di occuparci delle “leggi del caso”, a livelli adeguati. A questo riguardo segnalo un libro appena uscito in cui Silvia Tamburini ed io ci occupiamo di fornire materiale di base. I problemi non sono semplici: come si fissano in modo equo i risarcimenti per i sinistri involontari? Come si valuta il reiterarsi di una catastrofe naturale segnalata da precursori? Come si analizza il problema dei rischi in rapporto a quello dei benefici? Eccetera. Naturalmente, in tutti questi casi ci si imbatte in valutazioni soggettive e, perciò, bisogna essere capaci di valutare razionalmente le premonizioni offerte dalla realtà in cui gli eventi si svilupperanno; compresi i segnali inutili e il motivo della loro inutilità. Gli esempi non mancano di certo e spesso contribuiscono a modificare irresponsabilmente le decisioni con consultazioni popolari. È quindi di estrema importanza produrre valutazioni razionalmente giustificate di scelte che richiedono competenze poco comuni.

    Dal punto di vista didattico, anche linguistico, gli elementi di base sono semplici: ci dà un grande aiuto il gioco di testa e croce; gli eventi possibili, a ogni lancio di moneta, sono solo due, T (testa) e C (croce). Sono ugualmente possibili (probabili) e in un caso su due si guadagna un punto a proprio favore. Se si è puntato su T si perde se il lancio dà C; e viceversa. Il rapporto tra il numero dei casi favorevoli e quello dei casi possibili si chiama frequenza e si identifica con la probabilità di successo. In questo esempio, la probabilità di successo è perciò ½ = 0,5 = 50%, come la probabilità di insuccesso. Il problema è quello di capire come si calcola la probabilità di avere nT volte testa e nC volte croce su un totale di N = nT + nC lanci. Il problema didattico consiste nel mostrare che questa probabilità è deducibile dalla potenza ennesima del binomio perché i coefficienti binomiali altro non sono che il numero di modi in cui si realizzerebbe la somma N = nT + nC con tutti i possibili valori di interi tra 0 e N che hanno somma N. Per l’insegnante di matematica, un problema modestissimo.

    Una volta fornita questa base, il vero problema nasce dalla formalizzazione del problema reale, che può essere estremamente difficile. Ma la letteratura è ricchissima di esempi. Dunque si tratta solo di decidere di inserire la probabilità nella didattica: tutto ciò che posso fare è di convincere i colleghi a farlo: fatelo!

    Questo articolo è apparso sul numero 1/2014 del Periodico di Matematiche organo di stampa della Mathesis- Società Italiana di Scienze Matematiche e Fisiche. Carlo Bernardini insieme a Silvia Tamburini è autore di “La probabilità fa al caso nostro“, Carocci Editore 2014, ordina su Ibs

    Credits immagine: aquila460/Flickr

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