Insidie nanotech

    Protagoniste di un’entusiasmante rivoluzione tecnologica, le nanoparticelle cominciano a suscitare anche preoccupazioni per i possibili effetti dannosi sulla salute. È stato questo il tema del convegno “Nanotox 2004”, organizzato dalla Royal Microscopical Society e dall’Institute of Physics che si è tenuto nei giorni scorsi presso i Daresbury Laboratories in Gran Bretagna. “La produzione industriale di nanoparticelle”, spiega Vyvyan Howard, tossicologo dell’Università di Liverpool e tra gli organizzatori della conferenza, “avviene ormai su larga scala e interessa un ampio numero di prodotti, anche di uso comune. Un esempio sono i filtri solari, che contengono nanoparticelle di biossido di titanio”. Da qualche anno si susseguono studi che valutano la capacità di queste particelle di penetrare nell’organismo umano e causare danni a organi vitali. È di questi giorni la notizia, riportata da Nature, che nanoparticelle di carbonio inalate possono raggiungere facilmente il cervello e qui accumularsi. “I timori relativi ai possibili effetti delle nanoparticelle sulla salute umana sono assolutamente fondati”, commenta Roberto Cingolani, direttore del National Nanotechnology Lab (Nnl) di Lecce, una delle punte avanzate della ricerca nanotecnologica nel nostro paese.Per valutare la pericolosità di una sostanza non è più sufficiente conoscerne la composizione. Determinanti possono essere le dimensioni delle particelle con cui l’organismo viene in contatto. I polmoni, per esempio, dispongono di due meccanismi di difesa per impedire alle particelle inalate di diffondersi nel corpo. Il primo è un tappeto di muco che le raccoglie e scorre lentamente verso l’alto per essere poi inghiottito ed espulso dall’apparato digerente. Le particelle che invece superano questa barriera, finiscono negli alveoli, dove avviene lo scambio di ossigeno e anidride carbonica col sangue. La superficie degli alveoli è pattugliata dai macrofagi, cellule che hanno la funzione di “mangiare” le particelle estranee. Il problema è che i macrofagi hanno difficoltà ad assorbire particelle di dimensione inferiore ai 70 nanometri e possono essere facilmente sopraffatti da un numero troppo elevato di particelle. “È illuminante”, osserva Howard, “considerare i tipi di particelle a cui siamo stati esposti nel corso dell’evoluzione”. In effetti, particelle ultrafini sono presenti nell’aria fin dalla comparsa dell’essere umano sulla Terra. Fino a circa 15.000 anni fa si trattava principalmente di cristalli di sale diffusi per azione delle onde marine e non tossici perché solubili in acqua. Ma quando l’uso del fuoco da parte dell’essere umano è divenuto quotidiano la presenza di particelle di diametro minore di 70 nanometri è aumentata. La produzione di corpuscoli di dimensione nanometrica è infatti un effetto dei processi di combustione. Non è dunque solo alle nanotecnologie che va imputata la presenza nell’ambiente di particelle ultrafini. “Anche dispositivi di uso comune come impianti di riscaldamento o motori diesel”, sottolinea Cingolani, “diffondono nanoparticelle nell’atmosfera”. Il processo evolutivo che ha portato alla nostra specie, avvenuto in un ambiente privo di simili pericoli, non ha avuto motivo di selezionare nell’organismo meccanismi di difesa efficaci. Come è emerso durante il convegno, è necessario investire maggiormente in ricerche sulle implicazioni sanitarie di questa tecnologia. “Se guardiamo alla storia del progresso tecnologico”, conclude Cingolani, “l’essere umano si è sempre dovuto confrontare con le conseguenze ambientali delle produzioni industriali, inseguendo a posteriori possibili rimedi. Nel caso delle nanotecnologie abbiamo invece l’occasione per “giocare d’anticipo”, prima che i problemi si manifestino: personalmente valuto anche positivamente una proposta di moratoria vincolante a livello globale. Si potrebbe stabilire un periodo di tre-cinque anni nel quale, mediante un accordo internazionale che benefici di fondi comuni, si possano approfondire le ricerche sugli effetti biologici dei nanoprodotti”.

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