La frenesia delle città

Le città si allargano e si trasformano, i loro abitanti si spostano da un capo all’altro dell’area urbana. Percorsi e luoghi che centinaia di migliaia di persone vivono ogni giorno, pensati da urbanisti e architetti e poi realizzati dalle amministrazioni locali. Tempo di lavoro, tempo libero, tempo di vita che viene trascorso negli spostamenti da un luogo all’altro, nelle strade, piazze, cortili disegnati a questo scopo. Ma il tempo dei cittadini si trasforma poi nel tempo della città, è l’insediamento urbano a scandire il tempo delle persone o sono i singoli abitanti a dettare il tempo alla città? In altre parole, sono le trasformazioni delle persone che sviluppano il tessuto urbano o sono le scelte urbanistiche a influenzare il modo in cui i cittadini vivono il proprio tempo quotidiano? Domande non banali visto che la maggioranza della popolazione nei paesi industrializzati decide di vivere in città dove trova servizi, scuole, uffici, negozi e dove si trova a spendere anche il proprio tempo libero. Abbiamo chiesto di analizzare questi temi a Paolo Baldeschi, professore di Urbanistica all’Università di Firenze, seguendo tre diversi aspetti: il tempo delle trasformazioni fisiche, il tempo nelle trasformazioni della gente che abita le città e poi il tempo nell’urbanistica, cioè nella pianificazione della città.

Professor Baldeschi, come si è trasformata la città nel corso del tempo?

“Tutte le città si sono sempre trasformate nel tempo registrando momenti di accelerazione e momenti di pausa. Per esempio nei decenni fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento le città comunali italiane hanno subito un grande processo di trasformazione: è questo il momento della formazione dello spazio pubblico, che prima – salvo eccezioni – non esisteva. Poi il Quattrocento è un periodo di pausa, con trasformazioni meno evidenti e incisive rispetto a quelle precedenti. Il Cinquecento è un altro periodo di grande trasformazione in cui vengono messe a punto strategie militari e tecnologie belliche nuove e quindi inizia la costruzione di nuovi sistemi di difesa. Ma la grande trasformazione del tessuto urbano è legata soprattutto alla rivoluzione industriale: costruzione di fabbriche, quartieri operai, reti di trasporto, stazioni ferroviarie. Insomma nell’arco di pochi anni molte città europee, soprattutto quelle del nord Europa, prima di tutto in Inghilterra, poi in Germania e Francia, sono sconvolte nel loro assetto urbano. Una trasformazione tanto repentina che i contemporanei ne parlano come di un evento straordinario: fino a quel tempo infatti occorrevano molte generazioni prima che i cittadini si accorgessero che qualcosa stava cambiando all’interno della struttura della città, ora nel giro di una generazione si assiste al cambiamento del volto della città”.

L’industrializzazione accelera i tempi di vita della persona, questo implica un cambiamento anche nel tempo proprio della città?

“Certamente. Il tempo proprio della città subisce accelerazioni violente, ciò che vuol dire sia un ritmo accelerato nel cambiamento della città, sia nei comportamenti di coloro che la usano. Con la rivoluzione industriale nasce un nuovo soggetto urbano: la folla; prima esistevano gli abitanti-cittadini di una casa comune; dopo l’avvento dell’industrializzazione gli abitanti o gli utenti appaiono come individui anonimi che si muovono freneticamente, non più cittadini ma una massa fatta di atomi impazziti che si scontrano fra loro. La folla scandisce il ritmo della metropoli. Il tempo subisce perciò una violenta accelerazione non solo a causa dei processi di industrializzazione ma anche per l’uso che i cittadini fanno della città. Dal punto di vista dell’urbanizzazione questo corrisponde, per esempio, alla costruzione dei boulevards a Parigi, degli sventramenti nelle capitali europee. Specularmente, questo il momento in cui emerge la nostalgia della città preindustriale, una nostalgia che sancisce una battaglia persa, perché non si può più tornare indietro. La resistenza alla perdita della città storica, all’anonimità, a tutto ciò che può essere riassunto come “la scomparsa del centro”, è di tipo individuale; viene raccontata da personaggi che contrappongono la lentezza e il ghirigoro, alla frenesia rettilinea della folla-massa; sono i flaneurs, come, così come ce li descrive Baudelaire. Nella nuova metropoli tutto è accelerato e febbrile. A queste fasi dove il tempo è protagonista subentrano poi momenti di pausa in cui si riflette e si guarda ciò che è successo”.

In Italia oggi che momento stiamo vivendo?

“La mia impressione è che dopo l’accelerazione degli anni Sessanta- Settanta, l’età della grande trasformazione urbana, stiamo ora attraversando un momento di pausa. Oggi ci sono certamente dei cambiamenti che però interessano più la trasformazione dei paesaggi tradizionali o la creazioni di nuovi “paesaggi” (si pensi alla cosiddetta città diffusa), mentre le città sono in una fase di relativo assestamento. Le trasformazioni sono piuttosto di tipo qualitativo, come ad esempio i cambiamenti di funzioni, da industriale o da residenziale a terziario. Allo stesso tempo, l’urbanistica attuale pone più attenzione alla storia, non tanto o solo dal punto di vista della conservazione quanto per individuare delle linee di continuità nell’inevitabile trasformazione della città o del territorio. Si vogliono individuare delle invarianti, cioè quelle caratteristiche e quelle regole del territorio (o della città) che dovrebbero mantenersi costanti nel tempo. L’attenzione si rivolge alla profondità storica del territorio, che viene ora tematizzato non più un supporto neutro per l’edificazione ma come portatore di un progetto implicito di trasformazione. Temi come l’identità, le differenze, la non omologazione, emergono perciò e guidano la riflessione dell’urbanistica. Negli anni Sessanta il progresso è interpretato come tendenziale omogenizzazione, i nuovi complessi residenziali (ad esempio) sono progettati in modo uniforme, secondo standard codificati, e seguono ancora un presunto modello di organizzazione razionale dello spazio. Ora si accetta che ogni luogo sia dotato di una specifica identità, di tradizioni che non solo sono significative da un punto di vista culturale, ma che sono anche alla base di risorse valorizzabili economicamente. Ecco perché oggi si cerca che alcuni edifici o costruzioni o aree territoriali non cambino o, meglio, conservino nel tempo determinate caratteristiche e regole definite appunto invarianti”.

Al cambiamento temporale della città corrisponde oggi anche una trasformazione del tempo degli abitanti?

“Il problema principale è l’invecchiamento della popolazione. I demografi prevedono che già nel prossimi decenni quasi un terzo della popolazione avrà oltre 65 anni. La città contemporanea è stata pensata, progettata e organizzata per i giovani non per gli anziani. Il problema della popolazione anziana non si risolve solo con i servizi o le residenze protette, che sono necessari solo in condizioni patologiche o di estrema anzianità. La realtà di tutti i giorni è quella di gente che vive normalmente salvo avere un’età tale per cui non si comporta nella maniera aggressiva e mobile dei giovani. Gli urbanisti negli anni ‘60 hanno immaginato una città organizzata per grandi poli, gerarchizzata e specializzata. Cioè con alcune zone dedicate al terziario, altre ai negozi, e infine con i grandi spazi dei complessi commerciali. Questa organizzazione favorisce le economie di scala delle imprese e dei servizi urbani, ma allo stesso tempo crea una città che richiede molti spostamenti in macchina o sui mezzi pubblici, fatta quindi per persone disposte a spostarsi in continuazione e ad affrontare la congestione del traffico (per non parlare dell’inquinamento). Viceversa una città adatta a una popolazione anziana dovrebbe avere una struttura meno polarizzata e molto più reticolare, percorribile a piedi. In prospettiva i cittadini avranno sempre più tempo libero, la nostra città invece è nata sul negozio, il cui etimo è nec-otium: storicamente il tempo della città è stato scandito dal negozio, mentre l’ozio segnava il tempo della villa, del signore che risiedeva fuori dalla città. I cittadini futuri, che tendenzialmente avranno sempre più tempo libero, dovranno riappropriarsi dell’ozio. Quindi il problema non può essere affrontato riduttivamente, costruendo solo dei servizi, ma ripensando l’organizzazione globale: per gli anziani ma anche per i bambini”.

Come fare allora?

Come le ho accennato, la città moderna è stata concepita per i giovani, per una famiglia media abbastanza numerosa e per una popolazione mobile. È il modello americano degli shopping centers e dei grandi centri specializzati. Il vecchio modello della piazza o del borgo va benissimo invece per una popolazione anziana; certo va ripensato e razionalizzato, ma è un modello che ha un grado di vivibilità molto più alto. Negli Stati Uniti non si costruiscono più i grandi centri commerciali fuori dalla città; dopo decenni di decentramento basato sull’automobile, si cerca di ricostruire un effetto città; in Italia invece si insegue con 30 anni di ritardo un modello di città ormai obsoleto. La popolazione anziana, formata da coloro che non lavorano più, e quella dei bambini, che ancora non hanno iniziato a lavorare, non ha un atteggiamento verso la città alienato, cioè totalmente determinato da scopi estranei a ciò che si fa o si vive ora. Gli adulti in età lavorativa vivono la città (ad esempio, percorrono una strada o una piazza) senza alcun piacere, solo perché deve raggiungere un luogo. Il bambino è invece un flaneur; se abbiamo fretta, il bambino che teniamo per la mano ci fa impazzire perché si distrae continuamente; il bambino vive lì e in quel momento, la sua vita non è strumentale rispetto a uno scopo dato. Questa è anche l’essenza del gioco e, appunto, dell’ozio, valori che devono essere recuperati in ragione del fatto che ci allontaniamo sempre di più dalla città tayloristica, scandita da tempi frenetici”.

Come risponde l’urbanistica a questi cambiamenti?

“L’urbanistica moderna è nata con la rivoluzione industriale, o meglio, a seguito della crisi della città industriale . Nel piano urbanistico tradizionale è eliminato il concetto di tempo inteso come durata, come processo di cambiamento. Nel piano, infatti, il tempo è rappresentato a scatti, perché non fa altro che disegnare la situazione della città in un momento futuro, a volte anche indeterminato. Come poi si arrivi a questo stato futuro desiderato, con quali processi e in quali tempi non è dato sapere. Quando si è tentato di introdurre nei piani urbanistici elementi di carattere temporale, per esempio attraverso la programmazione degli interventi sulla città o con piani pluriennali di attuazione legati a bilanci e flussi di risorse finanziarie, si è incontrata una forte opposizione da parte delle amministrazioni che preferivano una maggiore indeterminatezza e quindi una maggiore discrezionalità. Introdurre il tempo nella pianificazione urbanistica è quindi un problema politico ma anche indica la necessità di superamento degli strumenti tradizionali. La disciplina urbanistica ha affrontato questo problema in modo più ideologico che concreto, coniando parole come “piano processo” e simili, ma in realtà senza un profondo ripensamento degli strumenti disciplinari. Questo perché il piano regolatore, per la legislazione italiana è essenzialmente uno strumento che sancisce i diritti dei proprietari fondiari. Attualmente nuovi problemi e nuovi scenari, ad esempio la competizione delle città nel mercato urbano, chiedono una strumentazione urbanistica che superi il vecchio ruolo di mediazione e consolidamento degli interventi fondiari. Da qui una crescente attenzione degli urbanisti ai processi amministrativi e politici, ai meccanismi di formazione delle decisioni, ecc. Cero, il rischio è di passare dalla padella alla brace. Da un’urbanistica disegnata e immobile a un’urbanistica intesa solo come lubrificante dei processi decisionali. Da piani fatti di soli obiettivi e indifferenti ai mezzi per raggiungerli a una pianificazione senza obiettivi e, diciamolo pure, senza valori. Con il tempo si vedrà…

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