La malattia cambia volto

L’Aids non fa più paura. Almeno nei paesi ricchi, quelli in cui nuovi farmaci sempre più efficienti e meno tossici sono a portata di mano, e l’Hiv cambia volto, trasformandosi da killer mortale in un fastidioso e longevo ospite dell’organismo. Una trasformazione assai insidiosa, perché l’epidemia è ben lontana dall’essere “sotto controllo”, come dicono in tanti, e non solo nei paesi più poveri del pianeta. In Occidente, infatti, l’Hiv è più vivo che mai. Solo che ha cambiato vittime. Non più solo tossicodipendenti e omosessuali. Ma uomini e donne eterosessuali, magari anche di una certa età. Cinquantenni che del virus hanno un pallidissimo ricordo, se pure ce l’hanno, e che si sentono del tutto al riparo da rischi. Per fare il punto sulla clinica e sulla ricerca Galileo ha intervistato Antonella D’Arminio Monforte, direttore della Clinica di malattie infettive e tropicali dell’Ospedale San Paolo di Milano, e membro del comitato scientifico della Eacs (European Aids Clinical Society), che a Dublino a fine novembre ha tenuto il suo decimo congresso.

Professoressa, cominciamo dall’epidemiologia. Cosa sta succedendo in Europa, dove l’Aids, a torto o a ragione, fa sempre meno paura?

”Gli ultimi dati confermano un andamento che è in atto già da qualche tempo. L’epidemia cresce soprattutto nei paesi dell’Est. E a volte il virus si diffonde per vie non tradizionali. Uno studio presentato all’ultimo congresso dell’Eacs ha rivelato che in Bielorussia si è verificata una diffusione a macchia d’olio del virus: migliaia di persone sono state infettate in modo improvviso e contemporaneo – dunque non secondo la classica trasmissione a catena, da un individuo all’altro – con un particolare sottotipo A, che non appartiene a quella regione. E’ bene ricordare che in Bielorussia l’infezione si trasmette soprattutto con lo scambio di siringhe tra tossicodipendenti. Il sospetto è che ci sia stata una contaminazione negli oppiacei provenienti dall’estremo oriente. Nella lavorazione della droga deve esserci stato un inquinamento da Hiv, che poi si è diffuso contemporaneamente in tutti i tossicodipendenti che hanno usato quella partita di oppio. E’ la prima volta che si sente parlare di questo fenomeno. Nei paesi dell’Europa occidentale, invece, dove il test per l’Hiv è gratuito e l’accesso ai farmaci è garantito, accade che le persone arrivano in ritardo alla diagnosi, cioè sostanzialmente quando sono già nelle fasi avanzate della malattia”.

Chi sono questi nuovi infetti?

“In genere sono persone a cui non è venuto in mente di fare il test perché non si ritenevano a rischio. Sono uomini e donne che si sono infettati prevalentemente per via sessuale, soprattutto eterosessuale, e tutti in età avanzata. Non sono i ragazzini eterosessuali che magari hanno un’attività sessuale promiscua e dunque si sentono più a rischio, sono signori maturi, tra i 50 e i 60 anni, che non hanno mai nemmeno preso in considerazione questa eventualità. Questi sono pazienti particolarmente problematici, perché presentano un sistema immunitario che non è forte e robusto come quello di un ventenne. Quindi rispondono meno bene alle terapie. Per giunta se arrivano in ritardo, quindi già con un’infezione opportunistica, devono fare insieme la terapia antiretrovirale e quella per l’infezione: un carico che non è facile sopportare”.

Quali sono le nuove strategie della ricerca in campo farmacologico?

”Alcune nuove e promettenti molecole, più potenti e meno tossiche, sono arrivate in fase avanzata di sperimentazione nelle tre classi tradizionali: inibitori della proteasi, inibitori della trascrittasi inversa non nuclosidici, e inibitori della trascrittasi inversa nucleosidici/nucleotidici. Poi si lavora anche su una nuova classe, quella degli inibitori delle integrasi, l’enzima che consente l’integrazione del materiale virale nella cellula. Un problema ancora da risolvere resta però quello delle tossicità a lungo termine. Ed è un problema non facilmente risolvibile, perché nessun trial clinico sarà in grado di verificarle, visto che tutti hanno un tempo limitato. Naturalmente ora diverse nuove molecole sembrano promettenti, ci sono dei dati positivi, per esempio, su una minore tossicità mitocondriale, ma lo vedremo in futuro”.

E per quanto riguarda la clinica?

”Negli ultimi anni la terapia è molto cambiata. Rispetto alle vecchie molecole, si è lavorato sulla riduzione del numero delle pillole da prendere ogni giorno. L’aderenza alla terapia retrovirale è fatta da tante variabili diverse, ma certamente anche dalla quantità di compresse da ingerire. Tra l’altro ora le terapie iniziano prima di un tempo, cioè quando la persona non ha ancora neanche un sintomo, dunque durano anche più a lungo. Non solo: chi non ha sintomi non ha mai veramente sperimentato la malattia e dunque non ha la paura che avevano i sieropositivi che negli anni Ottanta vedevano morire i loro amici. Queste persone hanno un’aderenza minore: hanno difficoltà a seguire qualunque tipo di terapia, perché non sopportano gli effetti collaterali, e soprattutto non sopportano il dover riconoscere di essere malati. Insomma, una volta scomparsa la paura della morte, resta la paura delle conseguenze della terapia”.

Quando c’è scarsa aderenza aumenta il rischio di ceppi resistenti. Come si risolve il problema?

“Diciamo che ci vorrebbe un uso ragionato dei farmaci, e la gestione da parte di personale qualificato. Altrimenti si rischia un uso non corretto, una adesione non perfetta alla terapia, il che promuove lo sviluppo di resistenze soprattutto nelle fasi iniziali della terapia. Un po’ come è successo con gli antibiotici: a forza di darli senza troppi pensieri si è sviluppato il problema dei ceppi resistenti. E’ un fenomeno molto esteso. E così oggi i test di resistenza, a differenza che in passato, vengono fatti prima dell’inizio della terapia”.

Quali sono le novità nel campo della prevenzione?

”Una strada interessante è rappresentata dai microbicidi, cioè da sostanze – in genere sotto forma di gel – che si possono applicare localmente per esempio in vagina, e che impediscono la trasmissione del virus. E’ una strategia che può rivelarsi utile soprattutto nei paesi in cui la donna non ha il controllo della prevenzione attraverso il profilattico. Per verificare la validità di questi strumenti sono partiti diversi studi su popolazioni particolarmente a rischio, come per esempio le prostitute in Thailandia. Poi c’è la strada dei vaccini, ma personalmente non credo che avremo presto risultati eclatanti”.

Perché? Ormai sono in tanti a seguire questa strada…

”E’ vero. Ma ciascun gruppo sta studiando una piccola parte del problema, e questo pezzettino da solo non risolverà il problema. Naturalmente è importante che ciascuno approfondisca un aspetto particolare, il punto sarà riuscire a mettere tutto insieme”.

Lei è membro della Società clinica europea dell’Aids. La ricerca nel Vecchio continente è sempre un passo indietro rispetto a quella americana?

“Assolutamente no, anche se dobbiamo sempre tenere presente che la maggior parte della ricerca farmacologica è in mano alle case farmaceutiche, che sono in genere a capitale americano. Nonostante questo l’Europa è riuscita in questi anni a valorizzare un settore che gli Stati Uniti non hanno, quello degli studi collaborativi. Questi consentono una circolazione di idee, di analisi, di dati molto importante per il progresso della ricerca. Certo, a livello di fondi siamo indietro, ed è molto difficile che un nuovo farmaco venga sperimentato soltanto in Europa”.

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