La rivoluzione del trascrittoma

Dal genoma al trascrittoma. Dalla collezione di parole con cui è scritto il nostro patrimonio genetico alla loro interpretazione. È questo lo sforzo dei ricercatori impegnati nello studio dell’Rna, la molecola che deriva direttamente dal Dna (da cui si differenza soprattutto per la sostituzione di una “lettera”, uracile al posto della timina) e che “traduce” l’informazione genetica. Un’impresa che sta cominciando a dare i suoi frutti, come testimoniano due articoli usciti la scorsa settimana su Science in cui 190 scienziati di 10 paesi diversi per un totale di 51 istituti di ricerca presentano i primi dati relativi al trascrittoma del topo, l’insieme cioè di tutti gli Rna presenti nelle cellule dei diversi tessuti di questo mammifero che è utilizzato come modello per gli studi di biologia e medicina. “Il genoma umano è come un vocabolario pieno di parole, ora le conosciamo ma non ne abbiamo ancora svelato il significato, bisogna interpretarle. Per farlo dobbiamo passare dallo studio del Dna a quello del Rna”, spiega Manuela Gariboldi dell’Istituto Nazionale dei Tumori e della Fondazione Istituto FIRC di Oncologia Molecolare di Milano che ha partecipato al progetto di ricerca promosso e coordinato da Piero Carninci, ricercatore italiano dell’Istituto Riken di Yokohama e Wako da 10 anni residente in Giappone. Proprio una nuova tecnica messa a punto dal ricercatore italiano ha consentito di “catturare” le molecole di Rna in maniera più efficace e di completare così la catalogazione di tutti gli Rna prodotte da una cellula. Il primo dei frutti del progetto è la messa in discussione di uno dei dogmi della biologia, cioè che a ogni gene corrisponda un Rna e quindi una proteina. Se fosse così il numero degli Rna, o trascritti, dovrebbe essere uguale a quello dei geni, ma così non è: a fronte di 22 mila geni presenti nel genoma umano l’analisi ha rivelato più di 180 mila molecole di Rna diverse. “Si è visto che i meccanismi che regolano la trascrizione sono molto complessi e dalla stessa porzione di Dna si possono ottenere più trascritti”, commenta la ricercatrice. “Lo studio ha permesso di evidenziare la presenza nel genoma di zone ricche di trascritti dove questi meccanismi sono molto frequenti che sono state chiamate foreste”. Proprio la presenza di questi meccanismi complicati spiega come sia possibile per esseri complessi come i mammiferi avere un numero di geni spesso poco più grande di quello degli organismi inferiori. E ancora: non è detto che ha ogni trascritto corrisponda poi una proteina. Non tutti gli Rna cioè traducono le informazioni genetiche portate sul Dna di una cellula in sostanze capaci di svolgere una certa funzione; da ora in poi si dovrà invece pensare in termini di “un gene-molti Rna e a volte anche delle proteine”. “Questo significa”, ha dichiarato Carninci, “che rispetto al nostro modello di cellula e di funzionamento dei geni, secondo cui solo il 2 per cento del Dna viene tradotto in proteine, aumenta di molto il numero degli Rna cosiddetti ‘non codificanti’, che cioè non servono a produrre una proteina ma piuttosto a coordinare il funzionamento dei geni, a dirigerne l’attività, la loro accensione o il loro spegnimento, o a svolgere altre funzioni ancora da scoprire”. In effetti risulta che addirittura il 62 per cento del Dna viene copiato in Rna e circa la metà dei 180 mila Rna è “non codificante”. I “nuovi” Rna che non diventano proteine derivano da zone di Dna finora poco considerate dal punto di vista funzionale: introni (le regioni all’interno di un gene che non servono a produrre una proteina), regioni intergeniche, cioè situate tra un gene e l’altro e che non contengono geni, oppure il cosiddetto filamento antisenso, la catena di Dna di un gene complementare a quella che serve a produrre un Rna per una proteina, ma letta in direzione contraria. Il risultato del progetto, un’opera titanica equiparabile al Progetto Genoma, apre nuovi orizzonti su quello che è stato definito il “continente” Rna, un nuovo territorio ancora sconosciuto che si sta rivelando ricco di sorprese. E su cui, come sottolineano gli stessi ricercatori, c’è ancora molto da lavorare.

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