La scienza riflette su se stessa

Pierre BourdieuIl mestiere di scienziatoFeltrinelli, 2003pp.181, euro 20,00Il titolo italiano di questo volume, uscito postumo (Bourdieu è scomparso all’inizio del 2002) è evocativo quanto fuorviante. L’originale “Scienza della scienza e riflessività” rende meglio l’obiettivo che Bourdieu si pone: non un manuale di comportamento per scienziati, ma “metascienza”, scienza che riflette su sé stessa. Se questo è l’obiettivo scelto, ci si deve lasciare dietro l’idea che il laboratorio sia un “piccolo universo chiuso e separato” che caratterizza la maggior parte della riflessione sociologica sulla scienza. Piuttosto, “solo una teoria globale dello spazio scientifico, come spazio strutturato secondo logiche insieme generiche e specifiche, permette di capire veramente l’uno o l’altro punto di tale spazio, laboratorio o ricercatore singolo”. La volontà di Bourdieu è quindi di definire un oggetto di studio chiamato “campo scientifico”: “un campo di forze dotato di una struttura e anche un campo di lotte per conservare e trasformare questo campo di forze” (p.48). Questo “campo scientifico” è osservabile ai suoi diversi livelli. Laddove la sociologia della scienza (alla cui rassegna storica e critica è dedicata la prima parte del volume) raramente ha osservato chi ricerca la fa quotidianamente, orientandosi più sulla creazione di grandi ipotesi sui rapporti scienza-società, in Bourdieu “il mestiere di scienziato” diventa decisivo: “uno scienziato è un campo scientifico fatto uomo, un uomo le cui strutture cognitive sono omologhe alla struttura del campo e, perciò, costantemente adeguate alle attese inscritte nel campo” (p.57). Tale corrispondenza non è comunque frutto di coercizione: sono gli stessi scienziati che al termine di “un lavoro di socializzazione specifica” sono disposti ad agire in “conformità alle esigenze di scientificità”. Allo stesso tempo, l’idea di campo mette in discussione le rappresentazioni agiografiche della scienza e delle comunità scientifiche: “ciò che si osserva sono lotte, a volte feroci, e competizioni all’interno di strutture di dominio” (p.62). Dunque, Bourdieu modifica il significato stesso delle istituzioni scientifiche di cui la comunità si è dotata: esse vengono create a difesa del campo scientifico, insieme a una serie di strumenti di cui la scienza stessa si dota per garantirsi autonomia. Il primo in questo senso è stata la matematizzazione della natura e quindi del linguaggio scientifico, compiuta all’epoca della Rivoluzione Scientifica. Ma anche le stesse discipline sono il risultato di dinamiche interne alla scienza che però definiscono e difendono i confini stessi del campo scientifico.Le linee principali di questo ragionamento non sono certo nuove. Bourdieu stesso con un po’ di autoincensamento scrive che un suo articolo del 1975 “diceva tutto quel che c’è da dire ma in forma ellittica” (p.61). Il risultato dell’analisi ci sembra quindi un po’ datato: “non si può capire l’ascesa o il declino di una disciplina se non a condizione di prendere in considerazione ad un tempo la storia intellettuale e la storia sociale di essa, andando dalle caratteristiche sociali del leader e del suo ambiente di origine sino a certe proprietà collettive del gruppo, come la sua attrazione sociale e la capacità di avere allievi” (p.88). Un tale approccio alla storia della scienza è in atto da ormai diversi decenni (e Bourdieu vi ha partecipato), ma si scontra con la difficoltà oggettiva di raccolta dei materiali necessari a ricostruire in dettaglio le vicende del passato. La ricostruzione storica è dunque sempre in divenire, un’immagine in movimento, sfumata, che già nel passato ha messo in crisi altri paradigmi epistemologici, e che sembra scontrarsi con l’idealizzazione proposta dal modello del “campo scientifico”.

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