L’ameba che coltiva i batteri

Sempre più lontane dallo stereotipo che le dipingeva come organismi semplicissimi, relegati in fondo alla “classifica” evolutiva, le amebe continuano a stupire. In uno studio pubblicato su Nature, condotto da Debra Brock e dal suo gruppo della Rice University (Usa), si legge che le amebe praticano una primitiva forma di allevamento: “coltivano” il cibo per far fronte alle difficoltà di un ambiente povero di risorse. 

Le amebe della specie Dictyostelium discoideum sono microrganismi unicellulari dalle sorprendenti capacità sociali. Si nutrono di batteri e, quando il cibo scarseggia, si spostano in un nuovo ambiente aggregandosi in “superorganismi” (cloni) formati da decine di migliaia di individui. In ogni clone, alcune amebe si differenziano in spore riproduttive da cui nasceranno le nuove generazioni, altre muoiono per formare un’appendice che aiuta la dispersione delle spore. Ed è proprio in questa fase che alcune si trasformano in allevatori (o coltivatori). Analizzando 35 cloni selvatici isolati dal terreno, infatti, i ricercatori statunitensi hanno scoperto che quasi un terzo conteneva spore che incorporavano batteri.

Quello che succede, spiegano gli studiosi, è che alcune amebe scelgono di non mangiare tutti i batteri a disposizione ma ne mettono un po’ da parte, per incorporarli in quelle che diventeranno le spore dei superorganismi. In questo modo, riescono a “seminare” i batteri nel luogo dove arriveranno in seguito alla dispersione, assicurandosi il cibo nel caso in cui il nuovo ambiente sia povero di risorse. 

L’allevamento, come accade sempre, ha un costo. I cloni che incorporano batteri si muovono con più difficoltà, e ciò rende la dispersione meno efficace. In più, quando il nuovo ambiente è già ricco di batteri, la pratica non rende. Per questo motivo, le amebe continuano ad adottare una strategia evolutiva mista: gli “allevatori” convivono con i “non-allevatori” in un delicato equilibrio di costi e benefici. Per i primi, i costi sono ampiamente ripagati dal fatto che saranno i “parenti” a mangiare i batteri di cui si sono presi cura.

Riferimento: doi:10.1038/nature09668

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