Le età della discordia

Quanto è vecchio l’Homo sapiens? La questione, ancora aperta, è una di quelle che più appassionano i paleoantropologi. Anche perché, come si può facilmente immaginare, stabilire quando esattamente la specie a cui apparteniamo ha fatto la sua comparsa sul pianeta è una faccenda che va oltre la semplice curiosità scientifica. Uno dei problemi cruciali è naturalmente quello della datazione dei reperti fossili attribuibili a Homo sapiens. Esistono diverse tecniche per stabilire quanto sia antico un reperto, e queste tecniche vengono via via raffinate e perfezionate. Per questo, a volte, l’origine di Homo sapiens può essere “spostata” avanti o indietro nel tempo anche di centinaia di migliaia di anni.

Nel giugno dello scorso anno, con una nota pubblicata dal settimanale Nature e ripresa poi anche da Galileo Ernesto Abbate, paleoantropologo dell’Università di Firenze, e i suoi collaboratori annunciavano la scoperta di resti fossili di ominidi a cui essi attribuivano un’età di 1 milione di anni. I reperti, rinvenuti nella depressione settentrionale di Danakil (Afar) in Eritrea, presentavano una combinazione di caratteri tipici dell’Homo erectus e dell’Homo ergaster, con tratti dell’Homo sapiens. Si tratta di un contributo importante alla conoscenza dell’evoluzione umana, soprattutto perché anticiperebbe di 300 mila anni, rispetto alle stime precedenti, l’inizio della differenziazione dell’Homo sapiens. Diversamente da quanto normalmente riportato dalle tavole sinottiche di paleoantropologia moderna, l’insediamento dell’Homo sapiens in Africa risalirebbe quindi a un milione di anni fa. Certo, nell’articolo pubblicato da Galileo, Abbate e i suoi colleghi sottolineavano prudentemente il carattere “preliminare” della scoperta e la necessità di effettuare una datazione più precisa. Anche se poi le conclusioni del loro articolo su Nature, cioè che l’età dei reperti fosse di circa un milione di anni, non sembravano lasciare spazio a molti dubbi.

Data la grande importanza della scoperta, questa datazione più precisa sarebbe davvero auspicabile. Perché, purtroppo, le tecniche impiegate per datare i reperti presentano qualche lacuna. Abbate e i suoi colleghi basano le loro stime essenzialmente su tre tipi di analisi. Innanzitutto una datazione assoluta basata sul rapporto tra due isotopi dell’argon, l’argon-39 e l’argon-40, effettuata su uno strato di materiale vulcanico contenente il minerale biotite. La biotite è un minerale ricco di potassio-39 che viene convertito in argon-39. Tale conversione si effettua in laboratorio per tappe successive di temperature sottoponendo a radiazioni il campione da studiare. La variazione del rapporto argon-39/argon-40 dà una misura del tempo intercorso da quando si è formato il campione.

Purtroppo questa datazione non ha fornito risultati utilizzabili: la biotite è infatti un minerale che viene facilmente contaminato. Assieme ai resti di ominidi sono stati trovati anche dei resti fossili di mammiferi che indicano un intervallo temporale che va dal Pleistocene inferiore al basso Pleistocene medio. Si tratta però di un intervallo molto ampio, che va da 500 mila a 1,8 milioni di anni fa e quindi non permette una datazione precisa dei resti ominidi. Infine è stata condotta una indagine magnetostratigrafica che però non è stata condotta secondo gli standard più moderni che oggi vengono ritenuti indispensabili da tutti gli specialisti del settore per accreditare l’attendibilità di una datazione.

La magnetostratigrafia è un’applicazione del paleomagnetismo, cioè dello studio della magnetizzazione naturale registrata dai sedimenti. Il campo magnetico terrestre ha invertito la propria polarità 20 volte negli ultimi 5 milioni di anni con una cadenza irregolare. I minerali ferrimagnetici, presenti in quasi tutti i tipi di sedimenti, hanno registrato come tante piccole bussole la direzione del campo magnetico al momento della loro deposizione. Ogni sequenza di strati geologici presenta quindi una serie di intervalli, detti magnetozone, che hanno “registrato” momenti della storia della Terra con polarità come quella attuale (normali) oppure opposte (inverse). Confrontando una particolare sequenza con una scala cronologica di riferimento per le inversioni del campo magnetico è possibile risalire all’età degli strati.

Abbate ha identificato quattro magnetozone: due inverse (R1 e R2) e due normali (N1, all’interno della quale sono stati trovati i resti ominidi, e N2) stimando l’età dei resti tra 990 mila e 1,07 milioni di anni fa. Sembrerebbe una stima molto precisa, ma purtroppo mancano molte analisi di dettaglio delle proprietà magnetiche dei sedimenti, con la conseguenza che le età così ottenute potrebbero essere erronee. Insomma, non è affatto detto che Homo sapiens sia davvero 300 mila anni più vecchio di quanto pensassimo. Bisognerebbe infatti studiare la mineralogia dei minerali ferrimagnetici e anche la stabilità della magnetizzazione dei campioni. La polarità magnetica di uno strato può essere il risultato di molte cause, più o meno complesse, e soltanto la caratterizzazione completa delle proprietà magnetiche può dare un significato reale alle datazioni. Per esempio, senza un controllo mineralogico accurato non si può scartare a priori la possibilità che la magnetozona N1 sia stata rimagnetizzata successivamente, quando il campo magnetico terrestre ha assunto la sua configurazione attuale, circa 780 mila anni fa.

Ma ciò che più preoccupa chi studia questi argomenti è che queste datazioni potrebbero poi venire utilizzate da altri studiosi per convalidare altre ipotesi, ignorando i problemi e le lacune del metodo con il quale sono state ottenute. Si potrebbero creare degli “effetti a catena” che si ripercuotono sull’attendibilità di tutti gli studi connessi, propagandosi in altre discipline. Il problema della datazione non si risolve soltanto con uno studio comparativo, ma con uno studio magnetostratigrafico completo e integrato da una serie di analisi che oggi tutti gli esperti ritengono essenziali. Senza analisi complete il dato paleomagnetico è privo di valore assoluto e può indicare tutto e il contrario di tutto.

* Ricercatore presso l’Istituto nazionale di geofisica, Unità organica geomagnetismo e paleomagnetismo

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