Alberto Burgio
La guerra delle razze
Roma, Manifestolibri, 2001
pp.260, euro 15,49
Da molti anni il concetto di razza fa discutere. Se i genetisti sono concordi nel dire che la razza non esiste dal punto di vista del Dna (si vedano gli studi fondanti di Luigi Luca Cavalli Sforza), è pur vero che essa è una chiave indispensabile per il discorso degli antropologi, che si troverebbero senza un termine definitorio analogo. Per questo, per quanto scomodo all’orecchio dei più, la si ritrova spesso e volentieri nella teorizzazione socio-politica. È però importante che venga riconosciuta tale dimensione, al fine proprio di evitare quella naturalizzazione del concetto di razza che è spesso alla base del razzismo. Alberto Burgio, in questo saggio che segue le stesse linee del precedente “L’invenzione delle razze” (1998) si spinge ancora più in là. Riconoscendo l’assenza di una base biologica, si può finalmente inquadrare in modo corretto la logica del discorso razzista, una logica che ha poco a che fare con le razze eventualmente esistenti. “Al contrario, le “razze” con cui il discorso razzista lavora sono prodotte (inventate) dal discorso razzista” (p.57).
Superata quindi la fase della lotta al razzismo tramite la biologia (tipica degli anni Settanta) e l’antropologia culturale (seguendo Levi-Strauss), subentra dagli anni Novanta in poi la necessità di una lotta che sia essenzialmente politica al razzismo. Un razzismo alimentato dai crescenti flussi migratori verso l’Europa ricca e sviluppata, cui è dedicata la parte seconda del volume, “Europa fin de siècle”. La politica assume quindi il ruolo di protagonista, e se con von Clausewitz la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ecco che “La guerra delle razze” diventa titolo quanto mai appropriato. Il Kosovo, il “profondo Nord” della Lega, ma anche i modelli mentali che formano una coscienza pro o contro il razzismo: Auschwitz primo tra tutti. È d’altra parte in quest’Europa che il razzismo ha conosciuto le sue forme più estreme, che nuove formazioni politiche crescono e si riproducono nonostante siano portatrici di idee insopportabili all’orecchio democratico. La suddetta Lega, l’FPÖ di Haider, fino agli esempi più eclatanti dei Balcani, piaghe della fine del Novecento cui una risposta efficace è ancora di là da venire.
Ma Burgio si dedica anche a smontare luoghi comuni, quali “italiani brava gente”, documentando il razzismo italiano nel suo sviluppo storico, e legando ancor di più il discorso razzista al controllo sociale. Non si può infatti dimenticare che il razzismo è da sempre un corollario di politiche di segregazione all’interno della società che avevano e hanno l’obiettivo di mantenere un sistema di gerarchia di classi: “Il razzismo funziona da straordinario “instrumentum regni” perché àncora a una falda naturale – indiscutibile e invariante – gerarchie sociali e ineguaglianze” (p.164). Conclude il volume una lunga sezione di recensioni alle pubblicazioni di argomento antropologico uscite negli ultimi dieci anni, una bibliografia ragionata utilissima per chi si accosta da profano all’argomento, ma che offre spunti di dibattito notevoli per chi certi temi maneggia da specialista. E indubbiamente fa scoprire, offrendo uno sguardo a volo d’uccello, quanto siano ancora radicate certe tesi anche tra chi “produce cultura”. Un modo per dimostrare che la lotta al pregiudizio razziale, verso qualsiasi gruppo sociale, è ancora attualissima e purtroppo necessaria.