Lo scienziato? Che sia etico e responsabile

I mezzi di comunicazione riportano ogni giorno le ultime scoperte dei laboratori e delle università di tutto il mondo, notizie che di solito hanno una vita mediatica molto breve, condite magari da qualche sondaggio di dubbia attendibilità. Un carosello informativo che spesso non permette una riflessione complessiva sullo “stato dell’arte” attuale e futuro della ricerca scientifica. Ma ogni tanto è utile percorrere sentieri meno battuti, poter dialogare con le voci autorevoli del mondo scientifico. Per raccogliere le loro esperienze e dare quindi un piccolo contributo alla comprensione di quelle figure appassionate e “singolari” che sono gli scienziati. Uno di questi è Marcello Cini, fisico e filosofo della scienza, teorico dell’ambientalismo e ‘batesoniano’. Galileo lo ha intervistato

Professor Cini, come vede la situazione attuale della ricerca scientifica?

“Oggi nella scienza è sempre più difficile separare la ricerca pura e disinteressata da quella applicata, produzione di beni materiali. Il nesso tra ricerca scientifica e tecnologie che da questa provengono è sempre più stretto. In biologia si danno premi Nobel e contemporaneamente si brevettano i risultati che hanno portato all’attribuzione del premio. Una volta il termine appropriato per la ricerca scientifica era ‘scoperta’, per quella tecnologica ‘invenzione’. Scoperta e invenzione caratterizzavano i risultati di queste due attività. Oggi invece questi termini sono praticamente interscambiabili, specialmente nelle discipline che si occupano della vita e della mente”.

Lei ha parlato più volte di un nuovo ethos degli scienziati. Ci può spiegare questa sorta di cambiamento etico che lei chiede ai suoi colleghi?

“Sono tentativi: ho proposto solo suggerimenti e alcuni esempi. Il punto di partenza essenziale è che gli scienziati dovrebbero abbandonare un’immagine della scienza come attività completamente distaccata dal contesto sociale, come conoscenza pura e disinteressata, ricerca della verità che fornisce certezze ed è quindi di per sé priva di valori, di interessi, di pregiudizi, di ideologie. Quest’immagine, propagandata e portata avanti tutti i giorni dalle comunità scientifiche, è dannosa non solo perché non corrisponde alla realtà, ma perché lascia agli scienziati l’illusione di fare il bene dell’umanità qualunque cosa essi facciano, perché di per sé la conoscenza è un bene”.

È l’importanza della responsabilità che lei ha sottolineato più volte.

“Il distacco nei confronti della responsabilità è forse il collante più forte della comunità scientifica. La sottomissione della ricerca a interessi particolari porta a dinamiche di sviluppo che hanno risultati imprevisti, dannosi e incontrollati. La prima cosa da fare è criticare e mettere in discussione dall’interno questo caposaldo deontologico per cui il dovere dello scienziato è solo fare bene la sua ricerca, ottenere risultati chiari e certi, senza occuparsi di nient’altro o delle connessioni dei risultati con tutto quello che li circonda. La ricerca ha implicazioni etiche. L’uomo ha bisogno di regole, così lo scienziato”.

Chi dovrebbe essere il garante di queste regole etiche ed epistemologiche?

“Certo, questo è solo il punto di partenza. Una volta diffusa la consapevolezza che gli scienziati sono condizionati dal contesto e hanno un effetto sul contesto sociale allora diventa possibile riconoscere che i soggetti sociali esterni alla scienza – persone, gruppi, popoli – coinvolti dalle ricerche devono in qualche modo partecipare a queste scelte, devono esserne informati. Certe scelte hanno una componente scientifica e tecnologica ma anche rilevanza sociale, culturale ed etica e quindi non possono essere prese solo dagli scienziati o dai politici, facendo calare queste decisioni dall’alto”.

Che tipo di procedure dovrebbero essere adottate per garantire questa partecipazione della società?

“Per le procedure concrete si possono anche usare quelle di tipo giuridico, ma l’essenziale è il riconoscere i punti di vista diversi. Per alcuni determinate scelte producono vantaggi, per altri degli svantaggi. Inoltre, il problema non è solo di responsabilità degli scienziati. Non basta che il singolo scienziato abbia delle forti convinzioni etiche, religiose o epistemologiche. Sono necessari orientamenti pubblici che medino le convinzioni parziali, pensiamo per esempio alla questione delle cellule staminali e degli embrioni. Si può optare per procrastinare certe scelte o imporre i tempi della ricerca. Bisogna mettere a confronto soggetti diversi rinunciando all’idea di delega e ripartizione secondo cui gli scienziati cercano la verità, i politici discutono delle applicazioni di questi risultati e tutti gli altri non contano perché non hanno conoscenze specifiche o rilevanza giuridica. Bisogna costruire insieme degli strumenti sui tempi, sugli obiettivi e sui finanziamenti”.

Ci devono essere differenze tra ricerca pubblica e privata?

“Io penso di sì. La differenza ci deve essere. La ricerca pubblica è pagata dalla collettività e a essa deve rispondere. I risultati della ricerca privata devono semplicemente non essere nocivi, ora e in futuro. La ricerca pubblica quindi deve in primo luogo “fare le pulci” a quella privata, invece ora c’è un’eccessiva commistione dei ruoli, nessuno controlla nulla. La ricerca pubblica dovrebbe soprattutto indagare gli scenari possibili e le ricadute sociali della scienza, cosa che l’industria privata non è in grado di fare. Bisogna dare concretezza al principio di precauzione, altrimenti rischia di diventare una parola vuota. Bisogna provare scientificamente le conseguenze dei risultati. È come nell’amministrazione della giustizia. C’è dialettica tra pubblico ministero e avvocato difensore, una dialettica delle parti in cui ci si confronta. Nel caso della scienza però troppe volte i pubblici ministeri fanno anche gli avvocati”.

Dove e in che modo dovrebbe realizzarsi questa dialettica tra le parti?

“Si devono costruire nuove sedi istituzionali di confronto e di controllo sulla ricerca. Luoghi dove il coinvolgimento di attori diversi, l’allargamento della sfera decisionale e di mediazione sia realizzato. Per il coinvolgimento del pubblico più largo questa è una questione di rinnovamento culturale che deve diffondersi ovunque, a partire dalla scuola”.

Internet e gli altri mass media che ruolo possono avere?

“I mass media sono molto condizionati dal mercato, ne valorizzano i prodotti e le opinioni dominanti. Bisognerebbe fare una politica culturale degna. Perché le trasmissioni culturali in radio e in tv vanno in onda a ore improbabili? È una cosa ignobile. I cittadini devono sentirsi coinvolti, devono prendere coscienza del loro coinvolgimento, sentirlo nella loro vita quotidiana. Pensiamo alla mucca pazza, le nuove medicine, l’Aids, gli Ogm. Sugli questi ultimi l’impostazione è chiaramente sbagliata. Si dice: fanno male o no? Ma se ci fossero prove che fanno male non si discuterebbe nemmeno, spero. Credo che non si debbano fare battaglie ideologiche ma cercare di destare interesse nel pubblico, sottolineare l’importanza della partecipazione”.

E le trasmissioni o le riviste di divulgazione scientifica?

“Sulla divulgazione scientifica c’è un grande equivoco. Le trasmissioni di Piero Angela per esempio, sono ben fatte da un punto di vista tradizionale, ma hanno una concezione della divulgazione sbagliata, come se si dovessero rendere accessibili gli aspetti tecnici delle varie discipline attraverso una drastica semplificazione dei linguaggi e delle metodologie. È come se ognuno potesse “mettere il naso” nel laboratorio, guardarlo dal buco della serratura. Ma fare questo è fuorviante. Se la scienza non è pura riproduzione oggettiva e fedele del mondo che ci circonda ma è una rappresentazione da vari punti di vista delle cose che riteniamo più importanti, allora è continua selezione, scelta. La scienza oltre che oggettività è anche soggettività, è la nostra testa che mette ordine nel mondo che ci circonda”.

Allora il pubblico può essere coinvolto attraverso gli aspetti soggettivi della ricerca scientifica?

“Sì. Bisogna divulgare gli aspetti soggettivi della scienza, in questo modo si può far partecipare la gente alle discussioni e alla scelta delle priorità. La divulgazione scientifica deve coinvolgere la gente non per comunicargli come è fatto quel pezzetto di realtà ma per comunicargli in che modo quella ricerca si colloca nel contesto, sia dal punto di vista delle influenze che subisce sia dal punto di vista delle conseguenze che produce. Bisogna parlare alla gente dei suoi interessi. Si possono coinvolgere le persone parlando del legame che quel particolare fenomeno ha con loro stessi, con le loro differenze, con le loro prospettive, nel bene e nel male”.

A proposito del suo libro appena pubblicato, Dialoghi di un cattivo maestro. Perché un’autobiografia?

“Le autobiografie si scrivono nella piena maturità. Io sono nato nel 1923 e ho raccontato il mio Novecento. Ritengo che il salto tra il XX secolo e il XXI sia epocale. È un passaggio di cui ancora non ci si rende bene conto. È una svolta enorme e quindi penso sia importante trasmettere ai giovani una base, un’idea di continuità e discontinuità, una traccia per la memoria”.

Che augurio fa al XXI secolo?

“Che si riescano ad affrontare meglio i problemi fondamentali che noi non siamo riusciti a risolvere. Su tutti, la riduzione delle disuguaglianze. Questa crescente forbice tra l’homo tecnologicus, simbionte tra uomo e macchina, e la maggioranza dell’umanità che vive in condizioni rese sempre più gravi proprio dall’acuirsi di questa forbice. Quello che rende miserabili e che uccide i paesi poveri è il fatto che noi li abbiamo privati degli aspetti importanti della loro vita, delle loro credenze, delle loro usanze, della loro cultura, in cambio di una lattina di Coca Cola. Anche se ai nostri occhi queste culture possono sembrare crudeli o in qualche caso superate, oggi abbiamo reso la vita di questi paesi semplicemente priva di senso, mentre in passato aveva valore e significato come società. Non è soltanto la differenza nel reddito pro capite, nel consumo di energia o di beni materiali a sfruttarli, è l’averli privati di quello che avevano prima e che rendeva la loro vita utile e piena”.

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