Mantegna formato puzzle

Per gli appassionati di storia dell’arte l’11 marzo del 1944 è una data tragica: quel giorno un bombardamento delle forze alleate colpì la chiesa degli Eremitani a Padova, distruggendo, tra le altre, la Cappella Ovetari e con essa gli affreschi di Andrea Mantegna (1431-1506) che da metà del XV secolo la rendevano celebre. Da allora è vivo il sogno di poter rivedere i dipinti nello stato precedente il disastro, di cui oggi rimangono solo alcune foto in bianco e nero. Proprio su questo sogno lavorano da qualche anno la Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico del Veneto, l’Università degli Studi di Padova, la Curia Vescovile e la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. Insieme, nel 2001, hanno dato vita al “Progetto Mantegna”, iniziativa ambiziosa che prevede la ricomposizione delle immagini grazie a un software realizzato ad hoc per aiutare i restauratori a mettere insieme un “puzzle” di 8.0735 pezzi.Ciò che oggi vediamo di integro nella cappella padovana sono i riquadri staccati da Antonio Bertolli sul finire dell’Ottocento, l’Assunta e il Martirio di San Cristoforo, conservati nel convento della Basilica di Sant’Antonio durante il conflitto mondiale, e rimontati successivamente. Ben peggiore sorte toccò agli affreschi rimasti in situ, ridotti in frantumi dalle bombe che nel 1944 colpirono gli Eremitani. All’indomani del bombardamento molti frammenti degli affreschi distrutti vennero raccolti e portati a Roma all’Istituto centrale del restauro, allora diretto da Cesare Brandi: le prime 35 casse furono consegnate a Padova nel 1975, le altre 38 nel 1992. Da allora tutti i frammenti sono stati consolidati, fotografati e trasferiti su 38 Cd Rom. Il programma sviluppato dal Progetto Mantegna lavora per “armoniche circolari”, secondo un principio noto alla matematica sin dall’Ottocento, e aiuta il lavoro di ricomposizione selezionando preventivamente le possibilità di sistemazione dei singoli frammenti. Che così da decine di milioni si riducono a poche decine, tra le quali, comunque, il tecnico deve scegliere. Tale metodo “virtuale” funziona e ha come fattore decisamente positivo quello di permettere di lavorare senza maneggiare i pezzi e provare infinite combinazioni.Fino a questo punto il contributo del “Progetto Mantegna” è incontrovertibile. Purtroppo tutto si diluisce a contatto con la realtà contestuale della Cappella Ovetari agli Eremitani. I frammenti superstiti, infatti, coprono circa un decimo dei quasi 800 metri quadrati della decorazione originaria. Inevitabilmente, la voglia di procedere in via operativa subisce una forte battuta d’arresto quando vediamo le ricostruzioni virtuali delle due scene già ricomposte (S. Giacomo davanti a Erode imperatore e S. Giacomo al martirio), in cui i piccoli “francobolli” di affresco appaiono persi sulla superficie delle vecchie foto dei riquadri. Chi ha partecipato al lavoro, come il Domenico Toniolo, per giustificare l’intervento si aggrappa alle parole di Brandi: “l’importanza del ciclo padovano era tale, che non può essere esagerata, e anche la riconquista di un solo decimetro quadrato ha un’efficacia che nessuna modestia può nascondere”. Probabilmente Brandi parlava in via del tutto ideale e sicuramente pensava a decimetri quadri interi e non risultanti dalla somma di tanti piccoli tasselli di due centimetri spesso molto distanti l’uno dall’altro.Come ha sottolineato il Sottosegretario ai Beni Artistici e Storici, Nicola Bono, ora spetta al Ministero, all’Icr e all’Opificio delle Pietre Dure prendere una decisione sul da farsi. Ma tra gli esperti ci si chiede se valga davvero la pena di effettuare un restauro che non ci darebbe altro che piccole zone di colore su grandi riproduzioni fotografiche degli affreschi. Forse sarebbe più sensato limitarsi a porre in loco proprio questi ingrandimenti, anche in proporzione 1:1, per aiutare la lettura di un contesto ormai perso. Per esprimersi proprio come Brandi, si è certi che un lavoro del genere darebbe un fondamentale apporto all’”istanza estetica”? Presentando il progetto, Bono ha sottolineato quanto il governo ritenga importante il massimo intervento del privato nella tutela (ma non solo) dei beni culturali. Ma, se è allettante l’idea di non dover dipendere dai magri stanziamenti ministeriali per il restauro di monumenti e opere d’arte, resta comunque un dubbio: il coinvolgimento di fondazioni private permetterà di giudicare in maniera equa tali progetti, anche quando il denaro potrebbe essere utilizzato per ben altre urgenze, magari meno spettacolari e altisonanti?

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here